La notizia è di quelle che fanno rumore: la politica del regno si apre alle donne, che potranno votare e perfino essere elette. Detta così, è una novità dirompente per uno stato conservatore e refrattario alle riforme come l’Arabia Saudita. Certo, se si va più in profondità, questo innegabile passo in avanti appare meno clamoroso: le donne potranno votare e candidarsi per le elezioni amministrative (le uniche che si tengono laggiù) solo fra quattro anni. Soprattutto, a questa apertura nel campo politico non corrispondono mosse simili a livello di diritti civili, che stanno maggiormente a cuore alle saudite: ossia il diritto – non solo teorico – di guidare, di lavorare, di uscire liberamente di casa senza chiedere l’autorizzazione al tutore maschio che ogni donna deve avere (padre, marito, fratello, addirittura il figlio per le vedove).Non sorprende quindi la diversità di reazioni a questo annuncio, che vanno da chi la considera una rivoluzione a chi solo una riforma poco più che cosmetica. La verità è che i nostri parametri per capire un mondo opaco, lontano e complicato come quello saudita sono spesso inadeguati. Il re Abdullah è considerato un sostenitore delle riforme all’interno della vastissima famiglia reale. Ebbene, delle riforme – a diversi livelli – sono state fatte, ma a sconcertare è il ritmo lentissimo con cui esse vengono adottate e tradotte in pratica. Da tempo, per fare solo un esempio, il governo preme perché le aziende, soprattutto se straniere, assumano delle donne. Ma poi non si fa nulla per permettere a queste aziende di poter assumere delle saudite, che risultano spesso impossibili da contattare o da incontrare per i selezionatori, dato che i maschi della famiglia oppongono il loro vincolante divieto.E così avviene anche a livello dello Stato: vi è una crescente consapevolezza di dover attenuare il gravoso carico di disuguaglianza per le donne, le minoranze, i non musulmani (è vietato dire Messa persino in forma privata in Arabia Saudita). Ma manca la volontà, o la capacità, per i settori più riformisti del Paese di vincere le resistenze degli oltranzisti e di chi interpreta i precetti islamici in modo iper-dogmatico.Paradossalmente, la mancanza di partiti, elezioni politiche, parlamentari eletti e libertà di stampa si è tradotta in una debolezza per la casa reale e non in una libertà di fare. I reali sauditi sono del resto un conglomerato di migliaia di principi diviso al proprio interno da visioni contrastanti, rivalità personali e di potere. Accusati (non senza ragioni) di corruzione e di uno stile di vita non islamico dai settori più integralisti dei musulmani wahhabiti e quindi attenti a non irritare i religiosi maggiormente conservatori. Intrappolati nella loro stessa ricchezza e dal terrore di scelte chiare, i sauditi hanno per anni scelto di non scegliere, mentre il mondo cambiava attorno a loro e al loro interno. Gli altissimi livelli di crescita demografica risultano ormai insostenibili per il sistema clientelare e pressoché privo di tassazione, mentre le domande di maggior libertà delle nuove generazioni (e delle donne saudite sempre più scolarizzate) stridono con il passo lentissimo scelto da Abdullah per il rinnovamento.Con il deflagrare della primavera araba tutto attorno al regno e con l’aumento delle tensioni con il vicino/rivale Iran un qualche segnale doveva essere dato. La scelta è caduta sull’attribuzione dei diritti politici attivi e passivi per il segregato universo femminile. Sarebbe sciocco e ingeneroso liquidarlo come irrilevante. Ma certo è solo il primo passo di un lungo percorso: fra quattro anni ci potranno essere membri della Shura (il massimo organo consultivo saudita) che, per recarsi alle sedute, dovranno chiedere il permesso al loro tutore ed elemosinare un passaggio in auto. O forse, i riformisti sperano che questa contraddizione renderà più celere la concessione di altri diritti, meno clamorosi ma più calati nella vita quotidiana.