Occhi neri, piedi scalzi, voci di bambini. E grappoli di capanne dal tetto di paglia e pavimento di fango. In cui si entrava piegati e si doveva restarci per evitare di farsi ferire gli occhi dal fumo del fuoco, perennemente acceso. Lì si faceva evaporare l’acqua per catturarne il sale. Proprietà – come terra e uomini – dei padroni della valle: i Cordobez. Così era Salinas di Guaranda appena quarant’anni fa: la comunità più povera della regione – il Bolívar – più misera dell’Ecuador. La grande foto in bianco e nero, appesa all’entrata della foresteria El Refugio, lo mostra con visiva concisione. E le parole di Bepi Tonello aggiungono i dettagli mancanti. «Tutto questo non c’era quando sono arrivato, nel luglio del 1971», racconta l’italiano – originario di Caerano San Marco, vicino a Treviso – mentre indica il centro del villaggio: la casa comunale, l’ufficio per il turismo sostenibile, il campo da calcetto, le abitazioni in muratura che hanno sostituito le baracche. «E soprattutto non c’era quella costruzione laggiù…». L’“edificio numero uno” è un fabbricato verde a due piani su cui spicca la scritta “Coacsal”, acronimo di Cooperativa di risparmio e credito. Non è un caso che sia il primo civico. Intorno allo stabile è nata la “nuova Salinas”. Che non è solo una comunità di tremila indios di etnia quechua sospesa a 3.650 metri tra le gole semiaride delle Ande. Salinas è la dimostrazione che è possibile conciliare sviluppo e solidarietà, crescita e giustizia sociale, efficienza e rispetto dell’essere umano. In una parola, è la fabbrica di un sogno che pian piano si avvera. «Quello del vescovo di Guaranda, monsignor Candido Rada. Fu lui a intuire che dare credito agevolato ai poveri poteva essere l’arma per emanciparli dallo sfruttamento», dice don Bepi, come lo chiama la gente di Salinas che, di continuo, lo ferma per salutarlo. Tornato entusiasta dal Concilio Vaticano II, nel 1970 monsignor Rada creò – grazie all’equivalente di duemila dollari, dono dei confratelli salesiani per i 25 anni di ordinazione – il Fondo ecuadoriano Populorum Progressio (Fepp). E chiamò ad aiutarlo due giovani salesiani italiani, il laico Tonello e il sacerdote Antonio Polo. «Furono loro a spiegarci che unendo i pochi risparmi di tutti avremmo potuto creare qualcosa di nostro – spiega Carmita Vasconez, 58 anni. – Mio fratello Germán, allora ventenne, convocò parenti e amici e disse: “Diamo l’esempio”. Io sono stata la socia numero 12 della cassa di credito, fondata il 15 novembre 1972». Ora gli associati sono quattromila. «L’anno scorso abbiamo erogato 3,8 milioni di dollari di crediti a contadini e cooperative in maggioranza perché mettessero su una piccola impresa. E da gennaio sono già 3,5 milioni – sottolinea il responsabile di Coacsal, Hugo Taolombo – il tutto a tassi inferiori rispetto a quelli ordinari e soprattutto senza garanzie». A parte quella della parola data. «L’unico avere che i poveri non possono permettersi di perdere», secondo il motto di Tonello. Che finora ha avuto ragione: il tasso di morosità è appena tra il 2 e il 3 per cento. La “rivoluzione della speranza”, da Salinas, sta contagiando il resto del Paese-cintura tra Nord e Sud del mondo. Con l’aiuto del Fepp – e, dopo il 1998, della sua derivazione Codesarollo – le banche di villaggio hanno popolato quest’angolo di Equatore, dalla costa pacifica all’Amazzonia. Sono ben 360 i “terminali” del sistema Codesarollo. Fondamentale per l’espansione di queste, il contributo italiano: dal 2002, oltre 200 Banche del credito cooperativo (Bcc) hanno prestato loro – a tassi più che agevolati – 40 milioni di dollari. Tutti puntualmente restituiti. Segno che il modello funziona. «Proprio come hanno funzionato, nel Veneto del dopoguerra, le casse comuni o “peota”, antesignane delle cooperative di credito», aggiunge Vittorio Sarfatti, 73 anni, socio della Bcc trevigiano. In Ecuador, l’iniezione di liquidità ha finanziato una miriade di cooperative di produzione che fanno di tutto, dal formaggio al cioccolato. Oasi di lavoro regolare per oltre 150mila famiglie. Un record in una nazione dove – nonostante il calo degli ultimi anni – disoccupazione e sotto-occupazione inchiodano nella miseria i tre quarti della popolazione. A Salinas, invece, c’è il pieno impiego e un brulicare di attività. Sono lontani i tempi in cui la vita degli abitanti dipendeva dalle saline di montagna. E dai capricci dei suoi “signori”. Circondata da maglioni, sciarpe e gomitoli di pura alpaca, Livia Salazar ricorda bene quando – nel pieno degli anni Settanta – i Cordobez frustavano sulla pubblica piazza chi non pagava il tributo: la metà del sale ottenuto. E sceglievano come schiave sessuali le adolescenti più carine. Tra loro, sua zia Adela. Quando, a 15 anni, restò incinta dopo le violenze, la ragazzina fu scacciata dalla casa padronale, in cui l’avevano costretta a lavorare come cameriera. «Dovette chiedere in ginocchio a chi l’aveva seviziata di poter tornare alle saline», racconta. Se lei ha avuto un destino diverso è stato grazie a Textiles, il lanificio creato da sua madre Rosa e una decina di donne nel 1976, col sostegno della cassa rurale. «Ora siamo in 292, molte lavorano a domicilio, nelle sperdute comunità a oltre quattromila metri, così possono badare ai figli. Da quando hanno un impiego la loro autostima è cresciuta. E anche il rispetto dei mariti », dice con una punta di orgoglio. È un altro degli effetti collaterali del circolo virtuoso innescato a Salinas. «Alla base del credito c’è il risparmio. Che significa educazione al futuro», dice Tonello. Ciò che mancava quando, per la prima volta, percorse la strada che da Guaranda porta a Salinas. Quella costruita nel secondo dopoguerra – dicono storici locali – da gerarchi nazisti rifugiati sotto falso nome in Ecuador. Erano abilissimi nello sfruttare la manodopera indigena, reclutata a forza e legata col fil di ferro. «È la metafora del passato di Salinas. La povertà ti incatena al presente. Monsignor Rada ci diceva: 'La chiave per liberarli è trasmettere la speranza. Il futuro esiste. E tutti siamo chiamati a costruirlo'. Qui a Salinas e nel resto dell’Ecuador stiamo imparando la lezione. Magari a voi dell’altra metà del mondo, a Nord dell’Equatore, farebbe bene un ripasso».