Dieci anni di lotte. L'Ecuador vota l'Amazzonia: stop allo sfruttamento che distrugge
Il referendum è il risultato di una lotta civile di oltre dieci anni
A Quito, il 10 agosto 1809, fu lanciato il primo “grido” di emancipazione dell’America Latina. Dalla capitale ecuadoriana, secondo la tradizione, partì il movimento di rivolta che, in pochi decenni, avrebbe reso il Continente indipendente dagli imperi spagnolo e portoghese. Duecentoquindici anni dopo, questo piccolo Paese, incastonato tre le Ande e il Pacifico, potrebbe di nuovo fare da apripista nella battaglia incruenta per l’avvio di una autentica transizione ecologica, che difenda la casa comune e i suoi popoli. Domenica, per la prima volta, i cittadini sono stati chiamati a pronunciarsi, in un doppio referendum vincolante – contestuale alle politiche e, al primo turno, delle presidenziali – sulla possibilità estrarre petrolio e minerali in una parte del la riserva amazzonica dello Yasuní e nel Chocó andino.
Un’esperienza inedita che va molto al di là della superficie protetta, tutto sommato limitata: 162mila ettari di selva, di cui 78mila direttamente di Parco, nel primo caso e 125mila ettari, nel secondo. Di norma, in base alle regole internazionali, gli Stati con una presenza indigena significativa sono tenuti a consultare la comunità residente sul territorio in cui vogliono intervenire. L’opacità con cui queste votazioni vengono spesso realizzate, grazie all’isolamento geografico e culturale dei territori in questioni, crea forti conflitti sociali. Stavolta, invece, i referendum sono usciti dall’ambito locale. Quello sullo Yasuní, addirittura, ha assunto una valenza nazionale.
«E il 59 per cento dei cittadini ha detto no alla distruzione di un’area fondamentale, nelle cui vicinanze vive il popolo Waorani e gli indigeni Tagaeri e Taromenane, gli ultimi due gruppi in isolamento volontario del Paese», afferma Pedro Sánchez, esponente del coordinamento di Iglesia y minería e delle Rete ecclesiale panamazzonica (Repam), da sempre in prima linea nella tutela della casa comune.
Nel 2013, quando alcune centinaia di giovani tra i 15 e i 30 anni hanno dato inizio al gruppo Yasunidos, era appena fallita la proposta dell’allora presidente Rafael Correa di ottenere 3,6 miliardi di dollari dalla comunità internazionale in cambio della rinuncia a sfruttare il giacimento dello Yasuní. E, con l’inizio della crisi economica, il leader era determinato a dare il via all’estrazione. Per impedirlo, Yasunidos ha cominciato la lotta per il referendum. Una sfida apparentemente impossibile: erano necessarie 538mila sottoscrizioni. In meno di un anno, 1.600 volontari ne hanno raccolto oltre 750mila ma il Consiglio nazionale elettorale ne ha contestato la validità. Il tira e molla è andato avanti fino alla svolta della Corte Costituzionale del settembre 2022. Il via libera definito è arrivato il 9 maggio scorso.
L’opposizione delle grandi aziende, in primis Petroecuador che in concessione il lotto petrolifero in questione, è stata accanita. Il greggio rappresenta la prima voce dell’export ecuadoriano. Secondo Petroecuador, si sarebbero persi 1,2 miliardi di dollari l’anno di mancati introiti per le casse pubbliche. In realtà, come spiega l’economista e esponente di Yasunidos, Carlos Larrea, la cifra non tiene conto dei costi di estrazione. «Allo Stato affluirebbero molti più soldi – sottolinea Sánchez – se eliminasse le esenzioni fiscali alle grandi imprese»: 6,3 miliardi di dollari solo nel 2021.
Alla decisione sul Chocó Andino, dichiarata dall’Unesco riserva della biosfera che ogni anno assorbe 390mila tonnellate di carbonio, hanno partecipato, invece, solo i cittadini della regione metropolitana della capitale. In questo caso, il no alle miniere di metallo ha raggiunto il 68 per cento. Anche stavolta i protagonisti sono stati i giovani, riuniti nel movimento “Quito sin minería“. Proprio come per Yasunidos, anche loro hanno avuto il forte sostegno della Chiesa. «La sua voce è stata cruciale nello spiegare alle persone – conclude Sánchez – che è in gioco la difesa della vita. Dei nostri popoli e dell’umanità»