Ucraina. Due colpi ogni minuto: gli spari dei russi sulla gente in fuga dall’acqua
La mappa dice che siamo al centro di Kherson, la città libera dai russi che però prendono ancora la mira da qualche parte poco distante. La freccia indica che il viale ci porterà al grande fiume. Ma il Dnepr è già qui. Tra le case, negli scantinati adibiti a bar, nelle strade, a coprire le buche scavate da quindici mesi di bombe, a travolgere quel che restava di una vita sotto tiro ma con gli occupanti fuori dai piedi.
«È la fine, non ci riprenderemo mai più», dice sconsolata la donna appena sbarcata da un gommoncino approdato nel porticciolo improvvisato, all’incrocio tra una villetta e un capanno assediati dall’acqua che odora di fogna. Da qui fino a due notti fa il fiume non lo vedevano neanche dall’abbaino. Ora il corso d’acqua è in salotto, con le sanguisughe e le onde che tremano ad ogni colpo che arriva da dietro l’argine. Sparano ancora. Colpi pesanti, spietati, su chi davanti alla diga che gli è tracimata nel podere stavolta si arrende per davvero e se ne va. Forse per sempre.
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Il governatore regionale Oleksandr Prokudin spiega che l’ondata ha raggiunto i 5,34 metri di altezza e che il deflusso non sarà rapido. Il ministro dell’Interno ucraino Igor Klymenko, nominato responsabile dell’emergenza, dice che il disastro ha devastato 29 tra villaggi e insediamenti, 19 dei quali nella zona controllata da Kiev, sulla riva occidentale del Dnepr, e 10 su quella occupata dai russi. Complessivamente i centri abitati invasi dall’acqua sono più di 80. Di certo non ci sarà nessuna controffensiva ucraina. Il picco dell’allagamento è stato registrato ieri mattina e ora è cominciato il ritiro, ma ci vorranno giorni, forse settimane prima che l’assedio liquido si ritiri e il terreno si asciughi. Kiev aveva atteso che passasse l’inverno per tornare a riguadagnare altri metri di territorio. Ma i carri armati e i veicoli dei battaglioni si troverebbero a combattere nella trappola di una palude che si estende per chilometri. E poi il fiume non è in secca, continuerà a correre con la sua possente portata e senza le paratie di Kakhovka continuerà tracimare dove gli argini sono bassi e le anse non riescono a contenerne il corso.
La distruzione della diga per un verso inonda una regione grande quanto il centro Italia, per l’altro desertificherà oltre mezzo milione di ettari che, secondo il ministero dell’Agricoltura, non riceveranno alcuna irrigazione. Kiev, uno dei principali produttori ed esportatori mondiali di grano, ha accusato Mosca di aver commesso un crimine di guerra. Le prime stime parlano di 42.000 persone da evacuare e secondo la Banca Mondiale quasi il 2% di tutte le aree coltivabili è a rischio per l’interruzione della fornitura di acqua a 31 impianti idrici. La distruzione della diga ha lasciato senza acqua il 94% dei sistemi di irrigazione a Kherson, il 74% di quelli di Zaporizhzhia e il 30% di quelli delle regioni di Dnipro.
Lo scambio di accuse procede di pari passo con quello dei colpi di artiglieria. Per tutto il giorno al ritmo di un paio di colpi al minuto le esplosioni si susseguono. L’acqua sporca schizza per metri e la gente non sa se è caduta una granata o è esplosa una mina trascinata dalla corrente. L’inondazione sta trasformando la città e la campagna in una trappola. I dispersi sarebbero una decina, ma nessuno sa quanti ne manchino davvero all’appello. Dopo una guerra cominciata due inverni fa e mai più finita, chi si aggrappa alla terraferma e ha visto l’inondazione che ha fatto della pianura il più grande lago dell’Ucraina, adesso sembra provenire da un mondo remoto. Negli occhi portano tutto la paura di chi neanche durante la fuga nel fango può sperare in una tregua.
Sul lato ucraino le forze di Kiev rispondono al fuoco calibrando le parabole sulle postazioni russe. Non è il solito botta e risposta a colpi di ordigni. Stavolta non è per tenere le posizioni: i militari devono sincronizzare il fuoco di copertura per consentire l’evacuazione dei superstiti inseguiti dai tiratori russi. La muraglia di cemento armato naufragata al suolo era alta 30 metri e oltre 200 metri di paratie sono sparite. Secondo alcuni funzionari ucraini citati dai media locali la diga sarebbe esplosa dall’interno. Diversi esperti consultati dal New York Times ritengono che molto difficilmente massiccio un attacco missilistico o di artiglieria sarebbe stato in grado di aprire una breccia nella centrale idroelettrica sotto controllo dei russi dall'inizio dell'invasione dell'Ucraina.
Il medico a capo di uno degli ospedali di Kherson, racconta che 136 persone sono state ricoverate a causa delle inondazioni. «Di solito si tratta di persone anziane – spiega il dottore –. Molti hanno malattie croniche che potrebbero peggiorare». Il primario si accerta che il suo nome e quello dell’ospedale non finiscano sui taccuini: «Non sarebbe la prima volta che i russi per rappresaglia colpiscono uno dei nostri ospedali». Quando le acque si ritireranno lasceranno miasmi e malanni. La rete fognaria, gli scarichi industriali, persino il camposanto, sono diventati un’unica poltiglia. Gli specialisti dell’emergenza contano le ore che mancano al contagio di una qualche epidemia. I vecchi non hanno dimenticato. Guardano alle case ridotte a catapecchie mezze affondate e rivedono gli spettri di un passato mai dimenticato. Parlano del raccolto distrutto e della terra che non potrà mai più essere coltivata: «La campagna sta bevendo il veleno», dice nonno Andrii, con i calzoni arrotolati perché non si rovinino dato che non è riuscito a salvare nient’altro prima di salire sul gommoncino dei ragazzi di “Save Ukraine”. Dice di non essere arrabbiato: «Semplicemente li odio». Evoca lo spettro dell’Holodomor, il genocidio ucraino praticato con la carestia che fece risparmiare a Stalin le munizioni necessarie a sterminare oltre 3 milioni di persone.
Le immagini satellitari mostrano la scia iridescente degli idrocarburi propagarsi fino a Odessa. Secondo Mosca è stata Kiev a sabotare l’oleodotto per il trasporto di ammoniaca. Il danneggiamento sarebbe avvenuto non lontano da Zaporizhzhia, dove oggi arriverà Rafael Grossi, il direttore dell’agenzia Onu per il nucleare, preoccupato che la centrale a causa della demolizione della diga possa non ricevere acqua di raffreddamento a sufficienza. Nuove ambizioni egemoniche e vecchi conti da saldare sono la sceneggiatura sinistra di questa guerra. Si distrugge oggi, mentre il passato ritorna. L’ammoniaca viaggiava attraverso un vecchio oleodotto. Si chiama “Togliatti-Odessa”. I conti di questa guerra non sono chiusi. E quelli del passato sono ancora aperti.