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Analisi. Scontri coi mini-bombardieri: così i droni hanno cambiato le regole del gioco

Francesco Palmas sabato 20 gennaio 2024

Il lancio di un drone Sherbab da parte di un miliziano di Hamas

È l’ennesimo trionfo dei droni: la guerra in Medio Oriente conferma un processo inarrestabile, partito con il Daesh, passato per gli Hezbollah libanesi e arrivato fino al binomio Hamas-Houthi. Potremmo dire che le tecnoguerriglie di oggi possiedono flotte di “bombardieri” in miniatura, capaci di galvanizzare l’impatto geopolitico delle loro azioni.
Lo si è visto nel 7 ottobre israeliano, quando i droni kamikaze di Hamas hanno accecato la barriera tecnologica al confine di Gaza. Alcune munizioni teleoperate dei terroristi caricano addirittura 30 chilogrammi di esplosivo e volano per 250 chilometri, conferendo una capacità inedita di manovra aeroterrestre. Qualcosa mai visto prima in Palestina, almeno nelle fasi iniziali della guerra e nella scala attuale, al punto che Israele, prima di avventurarsi a Gaza, ha scudato i carri con placche di acciaio e protezioni apposite, già viste sui mezzi russi in Ucraina. Preoccupato, il ministero della Difesa israeliano ha aggiornato pure il sistema di contrasto Iron drone raider, un ritrovato tecnologico che abbina intelligenza artificiale a velivoli non pilotati nella caccia ai droni nemici, molto più economico dello scudo Iron dome.
Gaza insegna però molto altro; conferma che Israele è una potenza inarrivabile anche nel campo dei droni: in questa guerra tragica ne ha fatto esordire di nuovi. Tzahal, l’esercito ebraico, combatte con piattaforme aero-terrestri proteiformi, dal ruolo e dalle caratteristiche varie, per l’appoggio alle truppe. Alcuni velivoli, piccoli, silenziosi e fitti di sensori ottico-comunicativi sono addirittura in grado di volare all’interno degli edifici; precedono i fanti in prossimità dei centri di fuoco nemici; fanno intelligence preziosa; permettono di discriminare il tipo di attacco e impediscono che i soldati incappino in trappole o imboscate, come osserva l’esperto militare Daniele Guglielmi.
Le piattaforme terrestri facilitano il lavoro dei commando perché cartografano i tunnel sotterranei nemici; quelle aeree stanno concorrendo alla caccia ai leader di Hamas. In una guerra cruenta, combattuta nel contesto più arduo possibile, Israele ha dimostrato di saper proteggere i propri uomini, forse solo quelli: le contromisure tecnologiche funzionano, perché il tasso di perdite registrato è inferiore al recente passato. Tecnologia e intelligenza artificiale suggeriscono tristemente che la “dronizzazione dei conflitti armati” investirà tutti i domini operativi. Per l’esperto Pierre Vallée se n’era avuto sentore nell’Alto Karabak, in Libia e in Ucraina. Hamas e gli Houthi, non diversamente dagli ucraini, hanno robotizzato perfino i barchini, nuova minaccia ai mercantili e alle infrastrutture offshore.
I droni navali, temibili, arrivano a massima velocità sull’obiettivo e solo le navi militari o gli elicotteri hanno artiglierie per distruggerli, anche se non sempre ci riescono. Si chieda ai sauditi, vittime di un attacco mortale nel gennaio 2017. Ed è solo per caso che non piangiamo altri caduti adesso, dopo il raid del 5 gennaio scorso, tentato sempre dagli Houthi a poca distanza dalle coste yemenite. Debitori dell’Iran, Hamas, Hezbollah, i guerriglieri yemeniti e i miliziani siro-iracheni dispongono di una filiera robusta, responsabile dal 7 ottobre in giù di oltre 100 attacchi.
Attacchi che «continueranno», come ribadito avant’ieri dal portavoce Houthi, Mohammed Abdulsalam, non intimorito dai 5 raid statunitensi e dalla rete di intelligence stesa dagli americani sullo Yemen. La guerra asimmetrica dell’asse filoiraniano ci costa purtroppo un occhio della testa, non solo a livello commerciale: i migliori droni nemici costano in media 20mila euro, mentre i missili sparati per intercettarli valgono fra 1 e 2 milioni di euro. Citato dal blog Zone Militaire, il vice-ammiraglio Emmanuel Slaars invita però alla prudenza: pur cari, gli intercettori salvano obiettivi di valore molto maggiore, tanto che l’Ue, spinta da italiani e francesi, sta pensando di scendere in campo con una propria missione di scorta al naviglio