Rivolta. «Myanmar sull’orlo della guerra civile», all'Onu si teme il bagno di sangue
In Myanmar sale la rabbia del popolo e tra le etnie contro i generali golpisti
Non è più tempo di tentennamenti e la situazione in Myanmar rischia di precipitare senza «azioni potenzialmente significative». Davanti al Consiglio di sicurezza dell’Onu non ha usato mezzi termini nella notte di mercoledì l’inviato speciale, Christine Schraner Burgener, che ha avvertito di un «imminente bagno di sangue».
Una «guerra civile che può accadere dinanzi ai nostri occhi e il fatto di non riuscire a prevenire una nuova escalation di atrocità costerà al mondo molto di più, nel lungo termine», ha sottolineato. Davanti ai 536 civili uccisi (oltre una quarantina i minorenni), di cui 141 soltanto sabato scorso, ai 2.729 arresti denunciati dall’Associazione di assistenza per i prigionieri politici, alle migliaia feriti o scomparsi il mondo resta fermo alle azioni simboliche, tuttavia la situazione sempre più complessa, caotica e violenta sembra spingere l’ex Birmania nel baratro della guerra civile.
Giorno dopo giorno la loro brutalità e insensibilità sembrano cementare la risolutezza della popolazione e, finalmente, un’alleanza tra le componenti etniche di un Paese-mosaico in cui i cittadini di etnia birmana, Bamar, sono i due terzi del totale.
Le minoranze, alcune numerose e agguerrite, hanno da tempo finito di credere nelle prospettive federali del Paese, in una condivisione di benessere e diritti di cui i militari si erano fatti un tempo garanti e poi avevano smentito cercando il imporre il motto divide et impera mettendo etnia contro etnia e religione contro religione facendo leva su nazionalismo e paura.
Le promesse e anche le minacce non hanno più presa perché non hanno più alcuna giustificazione. A segnalarlo, le copie della Costituzione date ieri alle fiamme dagli attivisti, estremizzazione del rifiuto di una Carta fondamentale che dal 2008 concede ai generali di gestire il Paese nonostante le schiaccianti vittorie della Lega nazionale per la democrazia e il prestigio di cui continua a godere la sua leader Aung San Suu Kyi.
Il mosaico etnico va riallineandosi e – salvo alcuni gruppi coinvolti negli interessi economici e di potere delle forze armate e per questo sconfitti alle urne l’8 novembre scorso – ha rimesso in moto le sue milizie contro la macchina da guerra birmana che da settimane martella villaggi e posizioni militari nelle aree abitate dalle minoranze ai confini con Cina e Thailandia. Migliaia di Karen premono sui confini thailandesi, al momento ancora sigillati, la Cina ha chiuso la frontiera giustificandosi con «una diffusione dei contagi da Covid-19 nell’area». Bangladesh e India, rischiano di vedere presto affacciarsi dal Myanmar profughi di etnie diverse dai Rohingya, che la pulizia etnica dei militari ha già espulso per la quasi totalità.
Karen e Kachin hanno cominciato le ritorsioni, come avevano preannunciato, l’esercito dell’Arakan (Rakhine) ha rotto la tregua, come pure gli Shan. Quasi contemporaneamente all’annuncio di «avere dato vita a un governo di unità nazionale» dichiarando «nulla la Costituzione» dei militari, la Lega nazionale per al democrazia ha annunciato di volere accogliere su un piede di parità le rappresentanze delle minoranze, cementando anche su un piano politico un’alleanza strategica. A loro volta le etnie hanno rifiutato l’offerta del cessate il fuoco del regime, negato ai movimenti democratici.
Una situazione per molti aspetti nuova, ma che neppure l’avidità e la sete di potere possono avere impedito ai militari di anticipare. Per questo si temono nuovi e preoccupanti sviluppi. Anche avere mostrato Aung San Suu Kyi durante il primo contatto – in videoconferenza – con uno degli avvocati a due mesi dall’arresto potrebbe fare parte di una strategia ricattatoria. La Premio Nobel rischia infatti di finire a giudizio anche per il reato di tradimento, punibile con la pena capitale e ieri le hanno contestato anche la «violazione di segreti di Stato».