Malaysia. Le donne discriminate anche sulla cittadinanza dei figli
Donne malaysiane sullo "Sky Bridge" a Langkawi, appena riaperto al turismo interno dopo le restrizioni per il Covid
Con un provvedimento controverso che sta già sollevando reazioni nel Paese, il nuovo governo della Malaysia - il cui premier Ismail Sabri Yaakob si è presentato ieri davanti al Parlamento – ha confermato la sua contrarietà al riconoscimento automatico della cittadinanza malaysiana per i figli nati da relazioni di cittadine malaysiane con stranieri. Ribaltando così una sentenza dell’Alta corte di Kuala Lumpur che il 9 settembre l’aveva invece ammesso. L’esecutivo, conferma l’agenzia Asia News, si appellerà all’Alta corte chiedendo una revisione della sentenza e confermando così in sostanza una posizione discriminatoria più volte evidenziata, dato che ai malaysiani sposati con donne straniere la legge garantisce invece il diritto di decidere la cittadinanza dei figli a partire però da una concessione automatica di quella del padre.
Alle madri con compagni di altre nazionalità, invece, non resta che la strada di un percorso legale che diventa ancora più ad ostacoli per le non musulmane a cui la legge nega il diritto di non vedere indicato sui documenti ufficiali e d’identità l’appartenenza religiosa. Giudicate, in diversi casi, in base alla legge islamica sovente applicata nell’ambito del Diritto di famiglia e quindi di fatto perdenti se il padre straniero è di fede musulmana e reclama per i figli la cittadinanza del proprio paese e l’affidamento.
Appena saputo dell’iniziativa governativa, conferma Asia News, gruppi della società civile hanno immediatamente avviato azioni di protesta. “Family Frontiers - organizzazione impegnata per i diritti umani connessi con l’ambito familiare - ha avviato una raccolta di firme contro quello che ha definito un "tradimento dei diritti" – segnala l’agenzia-. Almeno 5.000 le adesioni raccolte in 24 ore alla petizione che chiede al governo l’impegno di ritirare l’appello contro la decisione dei giudici. Anche l’ex ministro per le Donne, la famiglia e lo sviluppo delle comunità, Hannah Yeo, parlamentare dell’opposizione, ha bollato come ‘insensata e crudele’ la mossa governativa che mostrerebbe la volontà di perpetuare "questa palese ingiustizia" in una realtà che in molti ambiti ha saputo associare una identità religiosa perlopiù moderata e con la modernizzazione.
Sulla decisione del governo pesano diversi elementi. Il contenzioso risente infatti delle politiche favorevoli alla maggioranza di etnia malese di fede islamica, che oltrepassa di poco la metà della popolazione ma alla quale i Censimenti associano altri gruppi islamizzati per un totale del 62 per cento dei malaysiani. A questi, la coalizione guidata dall’Umno (United Malay National Organization) al potere quasi ininterrottamente dall’indipendenza nel 1957, ha garantito un crescente potere, lasciando anche spazio alla partecipazione di partiti e movimenti favorevoli all’introduzione della Sharia in tutta la federazione mentre ora è limitata allo Stato di Kelantan. Un presunto ”sentire comune” ha dato luogo a situazioni arbitrarie nei confronti delle minoranze etniche e religiose (indiani, cinesi, etnie aborigene; indù, buddhisti, taoisti, animisti, con i cristiani che sono meno del 12% dei 32 milioni di abitanti), che ha accentuato la polarizzazione nel Paese e ha screditato la leadership politica già segnata da personalismi, nepotismo e corruzione.