«Non mi sembra vero che sia finita». Si è dissolto in un’udienza di pochi minuti a Gibuti l’incubo giudiziario del missionario trentino don Sandro De Pretis, da un anno e mezzo privato della sua libertà con accuse generiche e più volte ritrattate fino a quella infamante di «corruzione di minori». Ha dovuto attendere 114 giorni in carcere, altri 13 mesi in libertà vigilata, prima che il giudice si esprimesse con una sentenza ambigua e confusa come le stesse ipotesi di reato: nella condanna di giovedì scorso si parla infatti di «possesso di materiale pornografico», ma la giurisdizione locale non prevede una condanna per questa fattispecie. Ed anche la misura detentiva inflitta a don Sandro – 3 mesi e 4 giorni con la condizionale, più altri cinque mesi – appare una giustificazione a posteriori del periodo che il sacerdote ha trascorso isolato dal 28 ottobre 2007 in una cella di 4 metri per 7 nel carcere di Gadobe: 3 mesi e 24 giorni, esattamente lo stesso periodo, con una sfasatura dovuta forse ad un errore. Ma sono molti i conti a non tornare in una vicenda umana che – anche dopo un’interpellanza al governo italiano – assunse a fine 2008 le dimensioni di un emblematico caso di giustizia internazionale, tanto che il governo Prodi ha sospeso il previsto finanziamento all’ospedale di Gibuti. Un processo interminabile che subito era stato definito «soltanto politico» dal vescovo di Gibuti, Giorgio Bertin, convintosi ben presto, dopo una scrupolosa indagine, dell’innocenza del sacerdote trentino incardinato nella diocesi dal 1993 per essere «africano fra gli africani». Le accuse rivoltate contro il missionario – 53 anni, vocazione adulta sbocciata dopo un periodo di volontariato internazionale – risultavano basate «in modo pretestuoso» su alcune immagini di bambini nudi con bubboni sul braccio, che don Sandro aveva archiviato in computer per sottoporle ai medici in vista di una diagnosi. È stato «incastrato in una trappola», per usare una sua espressione, che va collocata nell’ambito dei rapporti ancora tesi fra Gibuti e il governo francese, fino al 1957 potenza coloniale nello staterello del Corno d’Africa a stragrande maggioranza islamica (i cattolici sono l’1 per cento); don Sandro era infatti l’unico occidentale presente sul posto nel 1995 quando fu trovato ucciso il giudice francese Bernand Borrell: un suicidio, si disse, mentre la moglie ed altri testimoni ritengono trattarsi di omicidio perché egli stava indagando su loschi traffici. Più volte la diplomazia italiana – sollecitata anche dal vescovo Bertin – si è rivolta al presidente Sarkozy e al presidente giubutino Ismair Omar Guelleh per la liberazione di don Sandro; alla pressione della diplomazia vaticana si era aggiunta la mobilitazione della stampa cattolica che nella primavera dello scorso anno ha raccolto oltre 5 mila firme di solidarietà sul sito del settimanale diocesano Vita Trentina. «Ringrazio tutti quanti mi sono stati vicini anche con la preghiera» è il messaggio di don Sandro, rimasto fedele alla sua accettazione delle «catene» in stile «paolino» ma sempre deciso nell’affermare l’assoluta innocenza. In questi giorni non ha voluto commentare la sentenza, ha inviato solo questa mail agli amici più stretti: «Finalmente la mia storia, dopo un anno e mezzo, è terminata, pur se con una condanna – scontata in un senso e già scontata nell’altro senso – sulla base di un’accusa che era stata ancora cambiata due settimane fa, per la quinta o sesta volta. Adesso aspetto che le ultime carte siano fatte, e dopo dovrei poter ricuperare il passaporto e partire. Continuate a pregare per tutti noi qui a Gibuti».
LA VICENDAIn carcere di isolamento. Poi la mobilitazione popolareL’odissea giudiziaria di don De Pretis comincia nell’ottobre 2007 quando a Gibuti si scatena una campagna di stampa antifrancese che colpisce anche la Chiesa, accusata di creare «una rete per la pedofilia»: don Sandro è rinchiuso nel carcere di Gadobe, con accuse molto generiche. «Non dimenticate che io sono in prigione» scrive il 13 dicembre al settimanale “Vita Trentina” e si desta l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale: il «caso» va collocato nel conflitto fra Gibuti e governo francese. Spuntano allora presunti testimoni che portano a modificare l’accusa in «incitamento alla depravazione e alla corruzione di minori». Isolato dagli altri detenuti, il prete trentino si affida al suo vescovo, monsignor Giorgio Bertin, per il quale «sono accuse palesemente infondate», e al lavorio della diplomazia vaticana e italiana. Il 7 gennaio 2008, dopo la visita in carcere del suo delegato don Ivan Maffeis, l’arcivescovo di Trento, Luigi Bressan, chiede l’intervento dell’allora premier Romano Prodi e del presidente francese Sarkozy. Una settimana dopo il vescovo di Gibuti parla della sofferenza di don Sandro al Papa, nella visita ad limina. Dopo la mobilitazione della stampa cattolica in Italia (oltre 5mila firme vengono raccolte on line) e la richiesta dei suoi familiari al giudice gibutino, don Sandro ottiene di uscire dal carcere «per motivi di salute» il 21 febbraio 2008: deve però rimanere in libertà vigilata in una casa di religiose, senza «incontrare giovani e possibili testimoni». Del caso si parla anche in agosto al vertice Fao, ma l’attesa snervante si protrae per questi 13 mesi, fino all’udienza di giovedì scorso.