Afghanistan. «Dobbiamo trovare presto l'intesa prima che il potere torni ai taleban»
L’ex parlamentare Fawzia Koofi
Da ragazzina osservava in tv Margaret Thatcher e Indira Gandhi, chiedendosi come potessero quelle due donne parlare di fronte a tanti uomini e addirittura guidare una nazione. Ora affronta i drammatici affari di Stato del suo Paese, l’Afghanistan, con sicurezza e determinazione, Fawzia Koofi, 45 anni, parlamentare per due mandati e prima vicepresidente donna della Camera Bassa del Parlamento afghano. Dall’avvio dei colloqui di pace a Doha, è una delle quattro donne della delegazione che rappresenta il governo di Kabul e dunque negoziatrice al tavolo con i taleban. «Non ci aspettiamo che le truppe internazionali restino qui per sempre, nessun esercito può rimanere in un Paese straniero in maniera indefinita» dice al telefono scandendo con calma le sue parole, dopo la notizia del ritiro militare Usa entro l’anniversario dell’11 settembre. Nei mesi scorsi ha partecipato a tutti gli incontri tenuti in Qatar, «davvero difficili, con un gruppo che vent’anni fa faticava a vedere una donna come un essere umano con pari diritti. È stata una sfida, con momenti tesi e di frustrazione, ma in diverse occasioni ho percepito di esercitare un potere, quello della rappresentanza». Fawzia Koofi è sopravvissuta a due attentati, il primo nel 2010 ad opera proprio dei taleban, il secondo lo scorso agosto (non rivendicato) avvenuto a pochi giorni dall’avvio dei colloqui in Qatar, dove si è presentata con il braccio fasciato. L’attacco contro di lei fa parte di una lunga serie di attentati mirati «purtroppo diventati la nuova normalità per le afghane», dice.
A gennaio due giudici donne sono state trucidate in un’imboscata, a marzo è toccato a tre lavoratrici di una tv e a tre operatrici mediche della campagna di vaccinazione antipolio. La lista è lunga e la recrudescenza è rilevata anche dai dati della missione Onu. «Sono sopravvissuta e ho partecipato ai negoziati con il braccio bendato per dimostrare che le afghane sono abbastanza forti da perseguire i loro obiettivi malgrado siano nel mirino di gruppi che le vorrebbero ridurre al silenzio». Ci tiene, tuttavia, a sottolineare che non siede al tavolo della trattativa per parlare solo di diritti delle donne: «La nostra lotta è quella di incidere in diversi ambiti e tra l’altro spetta a tutti i negoziatori, anche uomini, schierarsi con le donne afghane».
A fine aprile Fawzia Koofi parteciperà alla nuova iniziativa diplomatica in programma a Istanbul: «Negoziamo per un accordo politico in cui i taleban, con le altre comunità politiche, donne e giovani compresi, siano parte della soluzione, accettando di coesistere». Finora però i progressi sono stati minimi perché, spiega, «i taleban attendono di vedere se le truppe Usa si ritireranno davvero e quando accadrà potrebbero sentirsi più sicuri di avere mano libera per i loro piani di governare da soli. Per evitarlo, va accelerato il processo di pace con una intensa pressione da parte della comunità internazionale». Da molti anni ormai Fawzia Koofi ha l’abitudine di scrivere biglietti e lettere alle sue due figlie, nel caso le capiti «qualcosa di brutto», senza mai la certezza, uscendo di casa al mattino, di tornarci sana e salva la sera. «Lo faccio ancora, ma con la tecnologia i messaggi sono più sofisticati, oggi mando video», confida. Tempo fa, in uno di questi scritti assicurava di essere «pronta a sacrificare la vita se questo significa un Afghanistan democratico e pacificato», perché «arrendersi non è quello che noi facciamo».