L'appello. «Dobbiamo fermare il conflitto in Sudan, la società civile chiede aiuto»
Yasir Said Arman, presidente del Movimento di liberazione del popolo sudanese
Una crisi umanitaria disastrosa provocata da un conflitto in cui si fronteggiano anche ucraini e russi. È lo scenario attuale della guerra civile in Sudan. Emergency, presente ancora nel Paese, riferisce che Port Sudan ne è diventata la capitale de facto ed è un enorme campo profughi: l’est del Paese ha accolto 500.000 sfollati, di cui 270.000 a Port Sudan. Molti i bambini malnutriti e con patologie respiratorie e gastro-enteriche, assieme a pazienti cardiopatici, racconta da Port Sudan Franco Masini, Coordinatore del Centro Salam a Khartoum. Moltisssime le famiglie in strada, senza acqua e in condizioni igieniche pessime, a rischio colera. Sul campo, secondo un video pubblicato dal Kyiv Post , forze speciali ucraine opererebbero a sostegno dell'esercito contro i mercenari della Wagner, alleati con le Forze di Supporto Rapido. La Wagner sarebbe arrivata dalla Repubblica Centrafricana dove fa base per rovesciare il governo con un battaglione di circa 100 unità. Secondo la Cnn nel 2023 il 90% delle armi dei paramilitari sudanesi arrivava dai russi.
C’è una guerra civile che dura da un anno e che ha fatto tante vittime quante a Gaza e più profughi che in Ucraina. «Ma il Sudan, e l’Africa in generale, sono ignorate quasi ovunque. In Europa e a livello mondiale», dice Yasir Said Arman, in Italia per tessere contatti a sostegno della società civile sudanese. Presidente del Splm, il Movimento di liberazione del popolo sudanese, Arnar è stato candidato alle presidenziali del 2010 contro il presidente-dittatore Al-Bashir. E consigliere politico del presidente Habdallah Hamdok, dimissionato un anno fa. «In questi giorni c’è stato a Roma un importante incontro sul rapporto tra Italia e Africa. L’Italia deve capire le conseguenze della guerra in Sudan. E sostenere assieme all’Europa le forze democratiche del Sudan».
Quali sono le dimensioni della crisi umanitaria?
Le statistiche parlano meglio di ogni descrizione. In Sudan c’è il più grande numero al mondo di sfollati interni, più di 11 milioni. E iI rifugiati sono oltre 3 milioni, in Egitto, Libia, Ciad, Sud Sudan, Etiopia, Eritrea. Oltre 20 mila i civili uccisi, più di 100 mila i feriti. Distrutte le infrastrutture e le grandi città. E la guerra ha bloccato l’agricoltura, quindi ora ci aspettiamo una grande carestia. Il Santo Padre ha detto che il primo diritto delle persone è rimanere nel proprio paese, prima di dover emigrare. Se non riusciamo a fermare rapidamente il conflitto, affronteremo una grande emigrazione forzata.
Ci sono le condizioni per un cessate il fuoco?
Ora dobbiamo fermare il dissanguamento in corso. Ogni medico, di fronte a un’emorragia, prima di indagare sulla causa pensa a come fermare la perdita. Dobbiamo arrestare la guerra, poi dobbiamo farla finire. Serve una volontà politica dei protagonisti del conflitto, ma la loro ricetta è proseguire. L’Esercito sudanese è sostenuto dagli islamici, che vorrebbero tornare al potere: la cosa più pericolosa sarebbe trasformare il conflitto in una guerra etnica, tra la gente del centro e del Nilo contro la gente dell’ovest. Da guerra tra due eserciti, diventerebbe guerra tra due comunità. Poi i paramilitari delle Rapid support forces non controllano le loro milizie e sono moltissimi i saccheggiatori. Ma c’è una terza grande forza molto importante.
Di chi sta parlando?
È la maggioranza del popolo sudanese: società civile, realtà democratiche, donne, comitati di resistenza. Le forze nonviolente vorrebbero il cambiamento. Europa e mondo democratico devono sostenerle per creare pressione dall’interno del Paese. Poi servirà la pressione esterna.
Che cosa pensa degli sforzi in corso per fermare la guerra?
Ci sono diverse iniziative: c’è quella dell’Igad, l’Autorità intergovernativa per lo sviluppo, quella dell’Unione africana, il processo di Gedda di sauditi e americani, l’iniziativa di Egitto e paesi vicini, del Ciad, dell’Eritrea. E i due incontri segreti in Bahrain - Arabia saudita, Emirati, Egitto e Usa - con Kabbashi, vice comandante dell’Esercito sudanese, e Dagalou, numero due dei paramilitari: incontri positivi, ma le forze civili ne sono escluse. E i militari hanno rifiutato le indicazioni emerse. Lo sforzo regionale e internazionale deve essere condiviso, includendo le Nazioni Unite, per premere sulle parti. Siamo arrivati in Italia per una serie di incontri: Comunità di Sant’Egidio, Parlamento, ministero degli Esteri. Il Sudan è un ponte tra Corno d’Africa, Sahel e Mar Rosso. Geopoliticamente avrà comunque un impatto sull’Europa, positivo o negativo che sia. E abbiamo avuto incontri con la Santa Sede.
Per il Papa il Sudan è un pezzo di III Guerra mondiale...
Abbiamo grande stima per l’interessamento del Papa per l’Africa. Ci hanno toccato le sue visite nella Repubblica Democratica del Congo e in Sud Sudan. Abbiamo bisogno della sua voce importante, gli lanciamo un appello perché non cessi di ricordare il dolore del nostro popolo, nelle preghiere e nei discorsi. Il Sudan è un Paese multireligioso, musulmani e cristiani coesistono. Io sono musulmano, mia moglie è cattolica, siamo sposati da più di trent’anni in armonia. Un esempio tra tanti.
Di cosa ha bisogno oggi il Sudan per uscire dalla guerra?
Di un progetto nazionale fondato su pace, democrazia, sviluppo e uguaglianza. E di un esercito unico, professionale e apolitico, altrimenti non avremo mai stabilità. Tutte le forze democratiche si incontreranno ad Adis Abeba tra fine di febbraio e marzo, 600 esponenti della società civile, per concordare un’agenda comune..