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La storia. «Digiuno per il sogno americano dei nostri figli»

LUCIA CAPUZZI venerdì 21 novembre 2014
«Solo succo di frutta, mi raccomando. Non possiamo mangiare subito». Patricia è inflessibile: «Lo so che avete fame ma dobbiamo ricominciare gradualmente». Le altre fanne cenno di sì. I volti stanchi appaiono più rilassanti. La dichiarazione del presidente Barack Obama è arrivata. Per 17 giorni hanno atteso in piazza Lafayette, a pochi metri dalla Casa Bianca, che il capo di Stato annunciasse l’atteso decreto sull’immigrazione. Il 3 novembre, quando hanno iniziato, non sapevano se quella misura sarebbe mai arrivata. Ora, dopo la lunga protesta e l’ultima notte di veglia, già questa mattina il presidio di “madres indocumentadas” (mamme irregolari) si scioglierà e le donne torneranno a casa. Dai figli, per cui hanno combattuto con l’unica arma, pacifica, a disposizione: il digiuno. Anche alcuni ragazzi hanno lasciato gli studi e il lavoro per accompagnarle. «Ho chiesto al mio di non farlo. Nessuno sa che è un “dreamer” in Connecticut. E se fosse deportato?». Juan, studente ventenne, invece, è arrivato dalla Florida. «Non corro rischi. Ho ottenuto il Dada, l’Azione differita per i minori, un anno fa. Per questo ho potuto iscrivermi all’Università» Juan è uno dei due milioni giovani portati illegalmente negli Stati Uniti dai genitori quando erano bambini, i cosiddetti “dreamer”. Dopo l’ultima bocciatura del Dream Act, nel 2010, che ne avrebbe dovuto consentire la regolarizzazione, Obama ha emanato, dall’agosto 2012, il Dada che, per lo meno, ha concesso a oltre mezzo milione di loro un permesso temporaneo. E con esso la opportunità di proseguire gli studi universitari, altrimenti impossibili. Sia i beneficiari sia l’1,5 milione di esclusi per ragioni anagrafiche (potevano presentare richiesta solo quanti non avessero compiuto 31 anni) chiedono da tempo alla Casa Bianca di regolarizzare stabilmente la loro situazione, oltre a quella degli altri “indocumentados”. I dreamer, stranieri di nascita ma statunitensi per formazione, hanno svolto un ruolo di primo piano nel far in modo che il tema “irregolari” si imponesse nell’agenda democratica. Con gesti spesso forti. Come le auto-denunce pubbliche di persone comuni ma pure di celebrità, come il caso dell’attore latino Antonio Guerrero.  Stavolta, a scendere in piazza sono state le loro madri. «Abbiamo aspettato per anni che il presidente mantenesse le sue promesse. C’eravamo stancate e abbiamo agito», dice con enfasi Ivania, originaria del Salvador. E aggiunge: «Almeno per i nostri figli vogliamo un sogno americano...». Le donne sanno che, con tutta probabilità, non otterranno alcun beneficio dal decreto.  «I miei genitori certe volte mi chiedono: “Pensi che riguarderà anche noi?”. Poi subito dicono: “No, è impossibile”» racconta Juan che, però, non rinuncia a sperare. «È terribile avere un genitore “indocumentado”. L’ho capito in venti minuti di attesa al telefono, in cui non sapevo se avrei più rivisto mio padre...». Nel 2006, l’uomo chiamò Juan per dirgli di essere stato fermato da una pattuglia di polizia mentre guidava. «Tra la prima telefonata e la seconda, in cui comunicava che non gli avevano chiesto i documenti, trascorsero venti minuti – afferma –. Sono stati infiniti. Se i nostri parlamentari immaginassero che cosa significa, si sarebbero decisi a fare la riforma».