Africa. Sudan, 180 morti negli scontri. Traffici d'oro e "padrini", la mano di Mosca
Si protrae ormai da tre giorni lo scontro fra esercito e paramilitari in Sudan che ha già causato 180 morti e 1.800 feriti tra civili e militari in un bilancio che rischia di continuare drammaticamente ad aggravarsi. Le forze armate hanno potuto annunciare la riconquista della tv di Stato ma rivendicazioni di successi di entrambe le parti rendono difficile stabilire chi stia effettivamente prevalendo sul campo. Ieri nel centro di Khartoum ci sono stati altri bombardamenti aerei, cannoneggiamenti e lancio di missili terra-terra con un numero crescente di abitazioni civili colpite da proiettili vaganti. Due ospedali colpiti da razzi e proiettili sono stati evacuati. La guerra civile sta contrapponendo da sabato il generale Abdel Fattah al-Burhan, capo delle forze armate sudanesi e di fatto presidente del grande Paese dell'Africa orientale, e il suo vice, il capo delle Forze di supporto rapido (Rsf) Mohamed Hamdan Dagalo, detto 'Hemedti': i due, dopo aver estromesso insieme i civili dal potere con il golpe dell'ottobre 2021, sono in contrasto da mesi soprattutto su tempi e modi dell'assorbimento delle Rsf nell'esercito. Il conflitto appare come una lotta all'ultimo sangue per il potere tra forze armate e paramilitari e per ora il ruolo più evidente dei mercenari russi della Wagner è limitato agli affari nel settore aurifero dell'ex venditore di cammelli Dagalo.
Il militare e il “cammelliere”, l’amico del leader egiziano al-Sisi con buoni rapporti a Pechino e l’uomo che forse più di tutti nell’Africa centrale può vantare legami solidi con Mosca. Carriere parallele, quelle del generale Abdel Fattah al-Burhan, leader militare di quel Consiglio sovrano di transizione che regge il Paese da due anni, e di un altro generale, Mohamed Hamdan Dagalo, anche noto come Hemetti, vice dello stesso Consiglio e a capo di quelle Forze di supporto rapido (Rsf) che stanno mettendo a ferro e fuoco Khartum e il resto del Paese. È l’esito della loro lotta per il potere, oggi, a poter determinare in un senso o nell’altro non solo il futuro del Sudan, ma quello di un’intera regione, considerato anche quanto il Cremlino stia giocando, dietro le quinte, un ruolo importante nella partita.
Hemetti, originario del Darfur e discendente di una famiglia di allevatori di cammelli, è l’uomo di cui tutti in Sudan hanno paura. Protagonista già due decenni fa delle scorribande di sangue dei miliziani janjaweed nel Darfur, ha accumulato una fortuna grazie al traffico clandestino di oro. I suoi uomini, una milizia di circa 80mila unità, controllano il confine con il Ciad e con la Libia. Soprattutto, i suoi uomini non rispondono a nessuno tranne che a lui, in una terra in cui il denaro vale più di ogni altro ragionamento sulla democrazia. Ed Hemetti, di denaro, oggi ne ha più di qualsiasi altro leader sudanese.
Sia Hemetti che Burhan sono usciti vincitori dal grande rimescolamento seguito al golpe che nell’aprile 2019 portò alla caduta dell’allora uomo forte sudanese, Omar el-Bashir. Proprio con Bashir entrambi avevano fatto “carriera” nel Darfur, prima che il vecchio leader diventasse troppo ingombrante e troppo inviso alla piazza che chiedeva il cambiamento dopo tre decenni di regime. Militari e paramilitari avevano dunque approfittato della rivolta della società civile, non risparmiando però alla piazza azioni sanguinose. Nel giugno 2019 le forze di Hemetti lasciarono sul terreno 100 morti civili durante una manifestazione, una scorribanda che rese il generale e le sue Rsf ancora più temibili.
Con il passare del tempo, il Consiglio dei golpisti ha mandato deluse ogni aspettativa della società civile di un passaggio ad un governo democratico, gettando definitivamente la maschera nell’ottobre 2021 con il siluramento dell’allora premier Abdalla Hamdok e la sospensione della transizione verso libere elezioni. Un passaggio che rese Burhan il volto più visibile tra i militari, ma reso possibile dal coinvolgimento dei paramilitari di Hemetti. In parallelo, il Sudan diventava da un lato oggetto di nuove influenze da parte delle potenze del Golfo, dall’altro terreno fertile per l’insediamento dei paramilitari russi della Wagner. Per accrescere i suoi rapporti, Hemetti mandava anche truppe scelte a combattere in Yemen al fianco della coalizione araba a guida saudita.
Era stato il vecchio dittatore Bashir, nel 2017, a far riconoscere alle Rsf di Hemetti lo status di forza di sicurezza indipendente, un riconoscimento quasi “dovuto” considerate le risorse della formazione armata e il suo ruolo. Ma le due carriere andate finora in parallelo sono al dunque arrivate allo scontro. Burhan, che lo scorso dicembre ha siglato un patto con i rappresentanti della società civile e non può più tollerare la presenza di una simile forza, puntava infatti a inglobare le Rsf (che dispongono di oltre 10mila pick-up armati) tra le fila dell’esercito, prima di dichiararle ieri forza «ribelle». Inevitabile che l’accorpamento fosse, per Hemetti, intollerabile. Il “cammelliere” non solo non vuole cedere la sua influenza in Sudan, ma sostiene anche di aver inviato una brigata in Libia per combattere a fianco del generale Khalifa Haftar e di aver aumentato il suo contingente in Yemen. La prossima mossa “naturale” sarebbe prendersi Khartum, altro che smobilitare. Imprenditore politico-militare, il suo business sembra andare oltre territori e confini legali, il suo potere più dinamico di qualsiasi potenziale fragile istituzione civile. Più che probabile che se ne sia accorto anche Vladimir Putin.