Guerra a Gaza. Hamas prende tempo. E la svolta per la tregua resta impantanata
Sul destino dei 136 ostaggi israeliani e dei 2,2 milioni di civili a Gaza, non pende un unico negoziato. C’è quello interno ad Hamas, sempre più frammentata tra l’ala politica e quella militare. C’è poi la partita interna al governo Netanyahu, il cui premier spesso si fa scudo degli alleati oltranzisti, e intanto prende tempo mentre i militari mugugnano.
Se il vertice del gruppo fondamentalista non appare compatto, facendo emergere la contrapposizione tra gli “ideologi” ospitati e stipendiati dal Qatar, guidati dal duo Ismail Haniyeh-Khaled Meshaal, e la fazione militare comandata a Gaza da Yahya Sinwar, anche le parole di Netanyahu non contribuiscono a sveltire i tempi di un accordo. Domenica sera era stato l’ennesimo dissidio interno ad Hamas a congelare la risposta alla proposta d’intesa. E ieri, spazientito dal tira e molla, il premier israeliano ha sostanzialmente ribadito «uccideremo la leadership di Hamas». Per riuscirci «ci vorrà del tempo: mesi, non anni». Parole che certo non incoraggiano l’imprendibile Sinwar, nascosto da qualche parte nella Striscia, a venire a patti sapendo d’essere di fatto un condannato a morte, per giunta con il timore di venire sacrificato perché altri abbiano salva la vita.
Il segretario di Stato americano Blinken ha ripreso a viaggiare tra le capitali coinvolte. Netanyahu – fanno sapere i media locali – ha detto ai suoi ministri di escludere la scarcerazione di migliaia di detenuti palestinesi. Hamas aveva infatti rilanciato, puntando a superare l’equivalenza fin qui accettata: un israeliano liberato ogni tre detenuti palestinesi rilasciati. Se Hamas dovesse rinunciare ad alzare la posta, proseguendo nello scambio “1 a 3”, allora non resterà che negoziare sul peso politico dei singoli detenuti e di cosa potranno fare una volta fuori. In cima alla lista c’è sempre lui, Marwan Barghouti, che con un paragone ambizioso è definito il “Mandela palestinese”. Un nome che però mette a disagio l’attuale leadership in Cisgiordania. Dalle parti della Muqata, il quartier generale dell’Autorità nazionale palestinese, si rincorrono i pettegolezzi. L’arma del discredito per scongiurare il ritorno sulla scena di “Napoleone”, come lo chiamano alcuni tra i vecchi amici scampati al carcere, per via «della statura e delle ambizioni». Dicono che dopo un quarto di secolo in galera, Marwan si sia rammollito o, peggio, sia sceso a patti con il nemico per ottenere qualche comfort dietro le sbarre. I familiari, senza mai alludere alla maldicenza, nei giorni scorsi ci avevano spiegato che alcune cose sono accadute. Per la prima volta dalla mattanza di Hamas del 7 ottobre, il detenuto eccellente ha potuto ricevere il suo avvocato. Marwan Barghouti ha raccontato di essere stato trasferito in una cella di isolamento estremo, senza neanche l’elettricità, dove è costretto ad ascoltare per lunghe ore l’inno israeliano e a subire altre forme di pressione. Un “messaggio” per chi fuori semina il sospetto che abbia ricevuto qualche trattamento di favore.
Che a chiedere la sua scarcerazione sia Hamas e non l’Autorità nazionale palestinese, non è insignificante. «Chiediamo il rilascio di tutti i detenuti senza distinzione», ci aveva risposto il vicepremier Rudeineh. Hamas, che con Barghouti ha parecchi conti in sospeso, chiede invece il suo rilascio confermando che “Mandela” è ancora credibile agli occhi della “base”, e che si tratta di un nome ancora spendibile sulla scena interna e quella internazionale.
Basterebbe questo a spiegare la frammentazione palestinese, che proprio Barghouti ambirebbe a superare offrendo la prospettiva non di un improbabile “governo di unità”, ma un “esecutivo tecnico”, del quale possano fare parte anche esponenti vicini all’ala dialogante di Hamas, con l’anziano Abu Mazen alla presidenza dell’Anp fino a nuove elezioni. Una prospettiva che contrasta con le politiche di Netanyahu, volte a spaccare e indebolire i palestinesi.
Al di qua del muro di separazione dalla Cisgiordania, non si risparmiano dubbi e critiche. «Quanti ostaggi sono stati liberati dai nostri soldati in quattro mesi di guerra?», domanda polemicamente un colonnello delle Forze armate che contesta la dottrina Netanyahu. «Neanche uno – si risponde –, almeno tre li abbiamo uccisi noi per sbaglio e chissà quanti altri non torneranno indietro vivi perché ammazzati dai nostri bombardamenti». L’ufficiale, che vuole restare anonimo, dice di non essere il solo a pensarla così. Non per buon cuore nei confronti dei palestinesi, «ma perché le guerre devono avere uno scopo e qui è chiaro che lo scopo principale non è mai stato quello di salvare gli ostaggi».
I rivali: chi sono
Ismail Haniyeh - È il leader dell’ufficio politico (Politburo) di Hamas, il capo di tutta l’organizzazione. Vive in Qatar, nella capitale Doha. Partecipa direttamente ai colloqui per le trattative che si tengono al Cairo. Sarebbe offuscato da un’eventuale scarcerazione di Marwan Bargouthi.
Yahya Sinwar -È il leader operativo di Hamas a Gaza, il numero uno nella lista dei miliziani ai quali l’esercito israeliano dà la caccia. Sarebbe tra i principali responsabili dei massacri del 7 ottobre. Si nasconderebbe in un tunnel nel sud dell’enclave. Vedrebbe con favore il rilascio di Barghouti.
Marwan Barghouti - Storico leader dell’intifada, esponente del partito al-Fatah, sta scontando nelle carceri israeliane la condanna a cinque ergastoli. È considerato da molti una figura in grado di tenere insieme le diverse anime palestinesi. Godrebbe di ampio sostegno popolare in Cisgiordania.