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Diario iracheno. La casa di Abramo, seme di fede e pace

Giorgio Paolucci giovedì 19 dicembre 2013

Missione compiuta. Quella che poteva apparire come una sfida impossibile si è dimostrata una strada praticabile. Sono rientrati ieri dall'Iraq i venti italiani che hanno partecipato al "gesto profetico" promosso dall'Opera Romana Pellegrinaggi e guidato dal vicepresidente monsignor Liberio Andreatta. La meta principale è stata la casa di Abramo nella piana di Ur, nella parte meridionale del Paese, da dove quattromila anni fa ha preso le mosse la grande avventura umana e religiosa che ha dato origine al popolo ebraico e che ha trovato compimento in Cristo. Come noto, Abramo viene venerato, oltre che dagli ebrei, anche dai musulmani che lo considerano uno dei profeti che ha preceduto l'insegnamento di Maometto. L'altro gesto altamente significativo è stato l'incontro con le comunità cristiane che vivono in Iraq, piccole e sempre meno numerose (il totale è sceso da oltre un milione di fedeli a 450mila in dieci anni) ma animate da uomini e donne di grande fede, che testimoniano una volontà di pace e di riconciliazione in una terra divisa e fragile. Emblematica e commovente la Messa di martedì nella cattedrale caldea di San Giuseppe a Baghdad, presieduta dal patriarca Rapahel Sako e a cui hanno preso parte le comunità che celebrano nei quattro riti presenti in Iraq: oltre ai caldei, i latini, gli armeni e i sito-cattolici. Presenti in chiesa, oltre al nunzio vaticano Giorgio Lingua, anche alcuni musulmani che in questi giorni hanno accompagnato i pellegrini, a testimonianza della volontà di concordia presente in tanta parte della popolazione. “Celebrare il mistero della morte e resurrezione di Cristo con voi questa sera rinvigorisce la nostra speranza, ci fa capire che non siamo soli e che l’unità è il bene più prezioso che i cristiani devono coltivare tra loro e testimoniare a questa società che ha bisogno di riconciliazione e di perdono reciproco”. Alle parole del patriarca caldeo Sako si sono aggiunte quelle di Andreatta, che ha rilanciato l’esortazione di Giovanni Paolo II: “Non abbiate paura, aprite le porte a Cristo. Siamo venuti in questa terra come pellegrini di pace, abbiamo trovato accoglienza, calore, affetto da parte di tanta gente e la sicurezza necessaria per compiere un gesto come questo. Non ci siamo fatti fermare dalla paura, e preghiamo perché chi vive in queste terre sia capace di guardare con fede e fiducia le difficoltà che popolano l’esistenza quotidiana”. Giovanni Paolo II desiderava andare come pellegrino in Iraq fino alla casa di Abramo, ma la guerra lo aveva fermato. “Non è potuto venire qui da vivo, ci viene ora idealmente da beato e prossimo santo”, ha detto Andreatta. Infatti tra i doni portati dall’Italia alle comunità cattoliche di Baghdad c’è un frammento della veste intrisa di sangue che Wojtyla indossava il 13 maggio 1981, il giorno dell’attentato in Piazza San Pietro. E’ stato offerto alla cattedrale siro-cattolica di Nostra Signora della Salvezza, dove il 31 ottobre 2010 un gruppo di terroristi legato ad Al-Qaeda ha seminato morte e devastazione facendo irruzione durante la celebrazione della Messa e uccidendo 47 persone. Papa Francesco aveva benedetto i doni prima della partenza, invitando a pregare “per la cara nazione irachena purtroppo colpita quotidianamente da tragici episodi di violenza perché trovi la strada della riconciliazione, della pace, dell’unità e della stabilità”. Durante il pellegrinaggio, che si è snodato da Bassora fino a Baghdad, ci sono stati anche incontri significativi con alcuni leader religiosi musulmani, con i pellegrini sciiti in cammino verso i luoghi santi di Najaf e Karbala, e con i governatori delle province di Bassora e Thiqar, nella parte meridionale del Paese, impegnati a ricucire il tessuto sociale e umano di questa terra. “Anche noi, come Abramo, ci siamo affidati con coraggio alla Provvidenza – commenta Andreatta al termine della settimana -. Abbiamo superato pregiudizi e scetticismi, e si è aperto un nuovo cantiere per realizzare itinerari di grande interesse religioso e culturale in una terra che è culla millenaria di civiltà ed è rimasta a lungo preclusa ai pellegrini. Anche così si può contribuire alla costruzione della pace e a ridare fiducia al popolo iracheno”.