Mondo

Guerra a Gaza, l'analisi. Dentro un tunnel senza vera uscita

Andrea Lavazza sabato 11 novembre 2023

Un soldato israeliano filma per l'esercito le operazioni nella Striscia di Gaza

La risposta militare israeliana all’eccidio del 7 ottobre non poteva farsi attendere che per poche ore. È la dinamica purtroppo ormai nota e prevedibile dei conflitti mediorientali. Ma dal punto di vista strategico le mosse di Tel Aviv non sembrano orientate verso un obiettivo preciso di lungo termine.

I servizi di sicurezza e l’esercito sono stati sorpresi – almeno in parte, la vera storia è ancora da scrivere – dalla portata dell’attacco terroristico. Il dispositivo bellico approntato in qualche giorno prima dell’offensiva su Gaza ha lo scopo di “distruggere Hamas” e “sradicarlo” dal territorio palestinese. Ma nulla era evidentemente chiaro nei piani del governo per il dopo-Hamas. Anzi, Netanyahu a lungo ha scommesso sulla rivalità tra il movimento fondamentaliste e l’Anp per mantenere un presunto controllo ed evitare l’affermazione di una delle due entità che governano la Striscia e la Cisgiordania, sulla base del classico “divide et impera”. Non solo ad Hamas è stato concesso di arricchirsi, internamente e con i fondi arrivati come aiuti dall’Occidente e dai Paesi arabi, ma nemmeno è stato monitorato in modo sufficiente, vista l’operazione che è stato capace di preparare e realizzare.

Che ne sarà allora di Gaza? Netanyahu ha affermato che non vuole occuparla né governarla direttamente. Troppo dispendioso da ogni punto di vista. Diventerebbe una ferita continuamente sanguinante, sempre a rischio di estendere l’infezione, ovvero, fuor di metafora, di allargare il conflitto. Ma altre soluzioni, anche al netto di preoccupazioni umanitarie, sono difficilmente praticabili.

Un’amministrazione provvisoria dell’Onu è complessa da realizzare e, soprattutto, non sarebbe facilmente accettata dall’attuale esecutivo di Tel Aviv, che si è scontrato due volte in queste settimane con il segretario generale Antonio Guterres, mentre sotto i bombardamenti israeliani sono morti già 99 dipendenti locali dell’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi. Una gestione provvisoria condiva da Giordania, Egitto e altri Stati arabi sarebbe garanzia per Israele di una certa stabilità – tra l’altro nessuno di quei Paesi vuole un esodo dalla Striscia -, ma ancora è difficile ipotizzare che capitali ribollenti di folle arrabbiate vogliano risolvere un problema a Israele a costo zero sulle macerie di Gaza. In questo senso, la durata del conflitto e il bilancio finale delle vittime civili avrà un peso importante per gli scenari futuri. La stessa Autorità nazionale palestinese guidata dal debole e screditato Abu Mazen non potrà entrare sui carri armati con la Stella di David nella Striscia distrutta per prenderne il controllo politico. Resta tra l’altro l’incognita Hamas, perché l’uccisione o la cattura dei capi di alto e medio livello, ammesso che possa essere completata, nella prima fase del dopoguerra lascerà una classe dirigente legata al movimento che dovrà essere in qualche modo integrata per evitare l’anarchia e il caos organizzativo. In oltre 15 anni di potere, tutti i gangli decisionali sono finiti in mano al gruppo dirigente attuale. Per non parlare della polizia e di come si gestiranno l’ordine interno e la sicurezza. Gaza per abitanti è una città nemmeno tanto grande, ma la complessità di una ricostruzione e di un ritorno alla normalità non sono da sottovalutare.

Se al timone rimarrà Netanyhau, Israele probabilmente vorrà avere voce in capitolo per qualsiasi soluzione si vada a sperimentare, e le tensioni rimarranno altissime. Per questo esiste il rischio che in mancanza di altre opzioni, si torni a una Striscia sigillata in modo ancora più soffocante, con l’opzione per Qatar e altri finanziatori arabi, oltre che occidentali, di contribuire alla parziale ripresa delle normali attività civili, restando l’incognita sull’amministrazione e il futuro. Infatti, annichilita Hamas, la rabbia e il risentimento non spariranno. Salafiti o altri gruppi estremisti riprenderanno forza. E la convivenza resterà un miraggio, se non si metteranno in campo sinceri sforzi per un percorso di sviluppo credibile ed efficace.