Reportage. Kosovo, così l'Italia difende i monasteri ortodossi
Non una sola mano sacrilega ha violato queste antiche pietre. Queste croci e queste preziose figure, più di mille sono, di santi e icone dorate che, da sette secoli, osservano dalle pareti della chiesa dell’Ascensione del monastero ortodosso di Visoki Decani. Neppure quando fin qui, e ben oltre, si spinsero le conquiste dei turchi del sultano. Fu solo un disgraziato incendio che nel diciassettesimo secolo distrusse l’opera dell’uomo, per poi farla risorgere ancora più bella. Questo luogo, dove il tempo sacro ha trovato rifugio nel silenzio di una stretta valle, per restare assorto nella preghiera e nella meditazione, dal 2006 patrimonio dell’umanità dell’Unesco, è divenuto suo malgrado il simbolo delle incomprensioni dell’uomo.Di passi avanti, in Kosovo, ce ne sono stati molti dalla fine della guerra serbo-albanese del 1999, ma ancora fa paura quanto accadde nel 2004: se non ci fossero stati i soldati italiani inquadrati nella missione Nato Kfor, anche questo monastero si sarebbe trasformato in una torcia di rabbia popolare. La preghiera s’è appena conclusa, dall’ingresso laterale della chiesa, con quel gradino di marmo consunto dalle secolari torsioni che i fedeli cristiano ortodossi devono compiere col piede destro mentre baciano lo stipite, prima di prostrarsi alla fede, ecco che esce una nera fila di monaci serbo-kosovari. Severi nelle loro lunghe barbe a piramide ribaltata, avvolti nelle pesanti tuniche colore del lutto, incutono timore reverenziale. Sembrano cavalieri medievali, alteri e ieratici, mentre il passo svelto li fa scomparire come d’incanto, come se questa loro visione fosse stata nient’altro che un miraggio. Padre Petar, aiutato da qualche parola d’italiano, fa capire subito che se non ci fosse il presidio italiano a protezione della comunità monastica e del tempio «sarebbe una sicura tragedia per la vita del monastero». «Contro queste pietre antiche e sacre sono state sparate più di venti granate e proprio il mese scorso sono comparse le ultime scritte minacciose che inneggiavano ai guerriglieri dell’Uck – racconta padre Petar –. Nel 2004, quando in Kosovo la situazione precipitò improvvisamente, la violenza del fuoco distrusse 35 siti religiosi, 90 case e causò una ventina di vittime. Noi ci siamo salvati grazie alla prontezza e alla ferma decisione dei soldati del vostro Paese. Siamo molto grati all’Italia e verso la comunità internazionale. Per questo preghiamo affinché voi non ve ne andiate».Eppure, anche gli stessi albanesi musulmani offrono la loro devozione verso il monastero ortodosso di Decani. Ci sono immigrati all’estero che quanto tornano per le vacanze nel loro Kosovo, la prima cosa che fanno è andare pregare queste icone. E ne riconoscono anche i miracoli. Come quello di una ragazza muta che qui ha ritrovato la sua voce. «Siamo rispettati da tante persone, e non solo perché ne abbiamo aiutato tanti di albanesi durante la guerra – aggiunge padre Petar –. Purtroppo, però, i veterani della guerra con la loro propaganda incitano le nuove generazioni. Intossicano le loro menti con false parole. E così quando noi andiamo in città, anche bambini innocenti, ci insultano a male parole». Il monastero di Decani del patriarcato di Pec, che richiama turisti che vengono fin qui dal lontano Giappone, è rimasto l’ultimo luogo sacro serbo nel Kosovo albanese musulmano, ancora “prigioniero” delle ombre cupe della guerra di 15 anni fa. Erano nove i siti religiosi “sensibili”. Ma in quest’ultimo anno, grazie allo sforzo di mediazione svolto dal generale Salvatore Farina, comandante della missione Kfor, otto luoghi santi serbi sono stati affidati alla tutela della polizia kosovara, segno evidente di una netta percezione che la situazione è migliore e che ci si può fidare della professionalità della polizia che è a maggioranza albanese. Per Decani la strada che porta alla quiete della preghiera senza l’ombra della paura, appare ancora impervia. Il nodo da sciogliere è legato alla proprietà di alcuni terreni che il regime di Milosevic, ancora quando esisteva la Jugoslavia unita, aveva donato al monastero. Finita la guerra la vecchia proprietà albanese ha rivendicato il suo diritto. Seppure una sentenza del-l’Alta Corte suprema del Kosovo ha stabilito che i terreni devono restare alla comunità monastica, la municipalità di Decani fa scudo e si rifiuta di cedere nel braccio di ferro.Prima di imboccare l’ultimo chilometro di strada, che porta nella stretta valle rivestita di bosco, una sentinella armata, ma non è l’unica, veglia sulla sicurezza di questo luogo di pace. Ora sono gli i lanceri del Montebello 8° che vegliano 24 ore su 24 sulla sicurezza del posto. «Questi religiosi vivono da anni in una “bolla di sicurezza”. La nostra presenza, e come italiani siamo qui fin dall’inizio, va al di là della difesa fisica di questo luogo patrimonio di tutti – racconta l’ufficiale che ci scorta, il capitano Gianluca Greco, 52° reggimento Torino –. Il profondo significato teologico e mistico di questo posto è un importante simbolo per la cultura serbo ortodossa rimasto a sud del fiume Ibar, dove il Kosovo è pressoché albanese».
La sconfitta dell’esercito serbo cristiano dello zar Lazzaro, per mano dell’armata turca musulmana del sultano Murad I sul Campo dei Merli, nel 1389, segnò la fine del regno medioevale serbo e l’inizio del dominio turco nei Balcani. Dopo il Kosovo caddero Costantinopoli, Atene, dove Santa Sofia e il Partenone furono trasformati in moschee. Poi cadde anche Belgrado. Risale a quella lacerante sconfitta di Kosovo Polje la memoria storica delle frustrazioni e delle speranze della Serbia, in questa regione che è anche la culla dell’identità albanese. Parrà inverosimile, ma a cercar di sciogliere certi intricati nodi della storia, oggi tocca ai soldati italiani che difendono il monastero serbo ortodosso di Visoki Decani.