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Il reportage. Damasco tenta di scacciare l’ombra di Assad

Lucia Capuzzi, inviata a Damasco venerdì 20 dicembre 2024

Miliziani nel centro di Damasco

Velo bianco come i guanti di lattice, gillet nero e jeans, anche ieri, Judi, avvocata 26enne, ha impugnato la scopa e ha «fatto la sua parte per rendere la Siria migliore», come dice. O, almeno, per rimuovere cartacce, foto bruciacchiate di Bashar al-Assad e bossoli dei proiettili sparati, ogni sera, dalla folla a piazza degli Omayyadi, nel cuore di Damasco, per celebrare la caduta del regime. Due giorni fa, l’ormai consueto raduno è stato preceduto da un corteo di giovani in difesa della laicità del Paese. La prima dimostrazione vera e propria dalla repentina fuga del dittatore, l’8 dicembre. Due settimane esatte dopo, la capitale e il Paese si affannano per trovare una fragile normalità nel caos del “nuovo corso”. Ciascuno partecipa allo sforzo nazionale come può. Judi e altri ottanta volontari under trenta di “This is my life” lo fanno con spazzolone e sacco per raccogliere i rifiuti, guidati da Mahmoud e Hamad al-Khaled, fratelli di Idlib e attivisti anti-Assad. Non è per questo, però, che Hamad è stato recluso per sette anni in altrettante prigioni – incluso il carcere-simbolo di Sednaya – fino a quando, nel 2019, la famiglia non è riuscita a farlo liberare, sborsando 13 milioni di lire siriane (circa mille euro al cambio attuale, l’equivalente di due anni di salario medio). «Non c’era altro modo. Colpevole o innocente non faceva differenza. Chi ha avuto la fortuna di uscire è perché ha pagato – sottolinea l’ex prigioniero –. Quando mi hanno preso, nel 2012, non avevo niente a che fare con le proteste: vivevo in Libano e stavo tornando per rinnovare il permesso. Che cosa mi hanno fatto? Quello che facevano sempre... Ma la cosa peggiore era la mancanza di spazio, restavi giorni senza sederti». Attoniti per l’orrore di oltre mezzo secolo e ancora galvanizzati dalla rivoluzione, non è facile per i siriani riprendere il filo della quotidianità. I ribelli di Hayat Tahrir al-Sham (Hts), artefici della spallata finale al regime, si sono costituiti in governo transitorio fino al primo marzo in attesa di definire quale direzione prenderà il nuovo corso. Ahmed al-Sharaa, meglio noto con il nome di battaglia Abu Mohammed al-Jolani, ha rinnovato, ieri, in un’intervista al Tg1, la promessa di elezioni, «ma solo dopo un censimento perché la metà della popolazione vive all’estero». Con il voto, inoltre – ha aggiunto - «i siriani decideranno la forma dello Stato». Il leader ha anche negato la regia turca dell’offensiva, rassicurato su Israele – non vogliamo conflitti con nessuno – e manifestato il desiderio di «grandi scambi commerciali con l’Italia», di cui incontrerà una missione lunedì. Retorica a parte, l’incertezza del futuro del totale. Non meno del presente. Sul modello dell’esperienza di sette anni a Idlib, Hts vuole a tutti i costi dare l’impressione di poter gestire l’ordinaria amministrazione. Ma guidare una provincia di 2,5 milioni di abitanti non è lo stesso che dirigere una nazione in crisi umanitaria, con il 90 per cento della popolazione in povertà. Le scuole sono state riaperte come le banche, gli uffici pubblici e perfino l’aeroporto di Damasco. Da tre giorni, però, i bancomat della capitale hanno finito i contanti, il pagamento delle pensioni è stato rinviato all’inizio del 2025, l’elettricità è passata da otto ore al giorno a quattro scarse, non ci sono materiali per restaurare le case dei sette milioni di sfollati che vogliono tornare. Le casse dello Stato sono state prosciugate dalla guerra e, soprattutto, delle sanzioni internazionali, tuttora vigenti. La caduta della dittatura non ha implicato l’immediata rimozione anche perché il gruppo vincitore è considerato organizzazione terroristica da gran parte della comunità internazionale, Usa in primis. Proprio l’amministrazione Trump aveva ulteriormente indurito le restrizioni alle transazioni finanziarie, nel 2019, ponendo anche gravi ostacoli all’assistenza umanitaria, con il “Caesar act”, dal nome della spia che trafugò le prove delle sevizie inflitte ai prigionieri del regime. Misura che il successore Joe Biden ha sempre mantenuto ed è intenzionato a continuare a farlo. Washington, però, al contempo, ha voluto dare un segnale di apertura inviando a Damasco, a dodici anni dalla chiusura dell’ambasciata, una delegazione di alto livello del dipartimento di Stato. Guidati dall’inviata speciale Barbara Leaf, i rappresentanti Usa hanno incontrato Jolani al Four seasons, hotel trasformato in quartier generale degli insorti. La riunione, ovviamente, come affermano fonti ben informate, ha ruotato intorno alla possibile rimozione delle sanzioni. E dal leader sono arrivati «segnali positivi». Visto il cambio imminente al vertice, però, è più probabile che la Casa Bianca proceda con alcuni “allentamenti umanitari” in cambio di garanzie sul rispetto dei diritti delle donne e delle minoranze. Impegni che Hts, formalmente, si dice pronto a dare. Tanti, però, dentro e fuori il Paese, non si fidano. I locali di Bab Shakri, quartiere di movida della capitale, sono attivi. «Ho, però, tolto le bottiglie di alcolici dagli scaffali. Se vuole ce l’ho ma preferisco non mostrarlo – dice Ali, 21 anni, barista di al-Rasif –.I miliziani stanno facendo delle ispezioni nella zona e preferisco non irritarli. Non si sa mai..