Una sfida, alla pioggia torrenziale e alle antiche consuetudini discriminatorie. La marcia dei “dalit” – promossa dalla Conferenza episcopale locale –, che mercoledì ha portato a sfilare davanti al Parlamento indiano 3mila cristiani e musulmani, non è stato un evento in sé nuovo. A stupire, però, è stata l’alta partecipazione. Oltre all’unità delle due fedi monoteiste, messi ai margini nel sistema di caste. Nel saluto ai gruppi che hanno partecipato all’iniziativa, sotto l’egida del Consiglio nazionale dei dalit cristiani, l’arcivescovo di Delhi, monsignor Vincent Concessao, ha ricordato come la discriminazione contro gli ex “intoccabili” cristiani e musulmani vada contro la Costituzione del Paese, profondamente laicista.I manifestanti hanno chiesto al governo di concedere – come già fa con gruppi più sfavoriti del sistema sociale, tradizionalmente associato con l’induismo – quote riservate di posti di lavoro e di accesso all’istruzione per i dalit cristiani e musulmani. Misure chieste da tempo ma che hanno incontrato forte opposizione. I critici, infatti, temono, da un lato, che riconoscere il sistema delle caste per fedi diverse dall’induismo possa accentuare tensioni interne, dall’altro, che il provvedimento porti a una ulteriore ghettizzazione le religioni minoritarie. Secondo dati della stessa Chiesa indiana, oltre il 60 per cento dei 25 milioni di cristiani indiani appartenevano, prima della conversione, a gruppi castali inferiori o fuori-casta e per questo sono tuttora sottoposti a disuguaglianze. «Non possiamo aspettare ulteriormente, questa ingiustizia deve finire – ha comunicato all’agenzia
Ucan, padre Devasagayaraj, segretario per l’Ufficio della Conferenza episcopale che si occupa dei dalit –. I cristiani hanno fiducia che il governo federale riconoscerà a tutti i dalit del Paese uguali benefici». I partecipanti alla marcia – dopo aver accusato il governo di «tattiche dilatorie» – hanno promesso di organizzare iniziative analoghe in tutto il Paese se le autorità non risponderanno affermativamente alle loro domande prima delle elezioni del 2014.Quello delle caste nel suo complesso è una delle contraddizioni, forse la più profonda, dello Stato indiano. Quest’ultimo pretende di combattere, in nome della democrazia e dell’uguaglianza, la discriminazione in tutte le sue forme ma, allo stesso tempo, tutela un complesso sistema di «caste e di tribù registrate» e una galassia di «gruppi arretrati», distribuendo opportunità e garanzie secondo giustizia, pressioni e necessità politica.Lo sviluppo del Paese, associato a maggiore mobilità sociale, possibilità d’informazione e cosmopolitismo, sembrerebbe favorire la scomparsa delle caste, ma non è così. Le antiche divisioni – risalenti a tre millenni fa – si ripropongono continuamente. Una riprova è la cronaca dei “delitti d’onore”: assassinii di giovani di caste diverse “colpevoli” di essersi innamorati. Oppure la “restaurazione” induista associata a forze politiche che cavalcano insieme nazionalismo e estremismo e propongono il recupero della fede induista e del sistema delle caste. Chiedendo anche il “reintegro”, in posizione subordinata, di quanti si sono convertiti ad altre religioni.Ancora oggi, la discriminazione si situa in profondità nella psiche degli indiani. Secondo un pregiudizio diffuso, quella tradizionale non sarebbe una società «divisa» o, tanto meno, discriminatoria ma «integrata», poiché ciascuno trova dalla nascita un proprio ruolo. Una condizione in qualche modo privilegiata, perché l’individuo può affrancarsi da un ruolo subordintato col trascorrere delle esistenze – seguendo i doveri del gruppo di appartenenza, riti e consuetudini – per giungere alla «liberazione».