«Si Dye vlè, si Dye vlè». Per ogni strappo che dà alla cima che tiene malamente assieme quel canotto improvvisato la ragazza ripete il suo mantra, «Si Dye vlè, si Dye vlè», nella ruvida lingua creyote: se Dio vuole. Si chiama Apostole, dice il nostro interprete, dichiara di avere 21 anni, ma la tragedia sembra averglieli raddoppiati. E ci vuole della follia disperata per fare quello che Apostole sta facendo: mettere in mare un’imbarcazione di fortuna, affrontare le acque caraibiche, circumnavigare Haiti e puntare verso Nord, doppiando Cuba, fino a vedere le coste della Florida. Perché questa – mentre ancora ieri mattina un paio di scosse di media intensità spargevano il panico a Portau- Prince – sembra essere diventata la parola d’ordine che dilaga oggi ad Haiti, nello slum di Cité Soleil come sulle alture di Petion Ville, al porto come nelle baraccopoli disperate vicino alla sede della missione Onu: fuggire, andarsene via ad ogni costo. È una pulsione violenta, irrazionale, che come la faglia spezzata dal terremoto lacera la coscienza: la maggioranza degli abitanti resta inchiodata in quei due o tre metri quadrati scarsi che ciascuno si è guadagnato nei parchi, nelle zone erbose, là dove è stato possibile improvvisare una tenda nell’attesa che arrivino quelle vere, bloccate da giorni nell’aeroporto. Ma una robusta minoranza di haitiani cerca la via di fuga. In almeno tre modi. Apostole ha scelto quello più rischioso, lo stesso dei 'balseros' cubani che negli anni Ottanta e Novanta a frotte si gettavano in mare a volte con zattere ricavate dalle ante di un armadio con sotto un paio di pneumatici di camion. Il sogno sembra a portata di mano. Un ferry haitiano sta ancorato nella rada di Portau- Prince e – a quanto si capisce – attende istruzioni dal governo. Quanto basta perché – sotto l’occhio spietato della Cnn – una folla di disperati stia cercando di raggiungerlo con ogni mezzo, un arrembaggio verso l’ignoto sufficiente però a nutrire l’illusione di essersi lasciati alle spalle l’orrore del 12 gennaio. Ma Apostole non ci crede. Non crede che quel ferry porti gli haitiani verso la terra promessa, lei vuol fare da sé, raggiungere davvero l’America, da sola. Come i 'balseros', come i boat people vietnamiti. Non abbiamo cuore di dirle che al largo della costa i megafoni delle motovedette americane già di prima mattina avvertono i naviganti che (la nota è del Dipartimento di Stato) «impediranno senza eccezione alcuna che i cittadini haitiani pretendano di entrare illegalmente negli Stati Uniti». E che, nel caso, la loro destinazione sarebbe – dice sempre la nota di Washington – Guantanamo, non Miami. Lasciamo con il cuore svuotato Apostole e il suo sogno e approdiamo a un secondo girone della speranza. Un girone che qualche chance la assicura e per questo costa caro. Puntuale in ogni evento catastrofico, un mercato turpe quanto remunerativo ha immediatamente preso forma. Da giorni infatti prospera un business non molto diverso da quello dei trafficanti di uomini sulle coste mediterranee: si prende il sangue di un animale morto, lo si spalma sul corpo e su delle bende, ci si affolla in un’ambulanza o su un camion e si parte verso Jimani, la frontiera dominicana. Ci sono i posti di blocco, è vero, ma chi ispezionando un mezzo di fortuna lo fermerebbe per controllare se quel sangue dei feriti è vero oppure no? «Una volta che arrivi di là – spiega la mia guida – butti via le bende ed è difficile che ti trovino. Di haitiani a Santo Domingo ce n’è a migliaia». Per non parlare di quelli illegali, che sono più di un milione. I giornali di Santo Domingo traboccano di lettere piene di apprensione: «Di questo passo – scrivono signore preoccupate – finirà che gli haitiani diventerenno la maggioranza della popolazione ». In effetti, il traffico di clandestini esisteva già da anni. Solo che ora il prezzo per un passaggio cresce di giorno in giorno. E se un tempo bastava una manciata di pesos per tentare la fortuna (al massimo duemila, neanche cinquanta dollari), ora ci vuole il triplo, il quadruplo, nei casi più complessi – quando c’è di mezzo un neonato o una famiglia troppo numerosa che renderebbe implausibile la messinscena dei feriti – anche dieci volte tanto. E cin- quecento dollari ad Haiti possono rappresentare il risparmio di una vita intera. Ma per molti continua a valerne la pena. Il terzo girone della speranza ha del paradossale. Sulla collina di Petion Ville, in rue Magny, poche decine di metri al di sotto dell’insediamento residenziale della upper class haitiana (che non ha praticamente subito alcun danno dal sisma), c’è una stazione della Caribe Tours, compagnia di autobus che fa la spola fra Port au Prince e Santo Domingo. Il biglietto in sé non è caro, 68 dollari. Ciò che è diventato impossibile è procurarsene uno. Perché per gli haitiani che possono permettersi un passaporto, quella è l’unica via legale possibile per raggiungere la Repubblica Dominicana con visto turistico. Una folla enorme preme attorno al cancello azzurro di quella che era e rimane una piccola agenzia di viaggi e che ora viene difesa dalla polizia armi in pugno. «Mi chiamo Marion, ho una cugina a Santo Domingo. La mia casa non è crollata, ma non posso andare al lavoro, faccio fatica a trovare da mangiare, ho paura per mia figlia, temo un’epidemia. Per questo vorrei andarmene per un po’. Ma chissà quando potrò farlo». Nemmeno i gendarmi riescono a incolonnare la folla che preme al cancello. Ci riesce invece Madame Dubreaux, che dirige l’agenzia con il piglio dei condottieri. La sua voce prodonda, imperiosa, scatta di rabbia quando nessuno vuol lasciar passare davanti una ragazza malata: «Ma non vi vergognate? Non siete in grado di cedere un posto?» La folla ammutolita apre un varco. Sul bus di mezzogiorno – ma gli orari non esistano praticamente più – la ragazza, che ha in braccio un bimbo, potrà partire. E avrà una speranza concreta di non essere respinta alla frontiera dominicana. Si Dye vlè.