Venezuela. Sulla rotta della carestia tra i villaggi fantasma
Abitanti in viaggio dalla campagna verso la capitale Caracas su un camion-corriera (foto Zanotti)
«Juntos todo es posible». In Venezuela la retorica del regime, propagandata con la schiera dei mega cartelli affissi un po’ ovunque, anche lungo l’autopista o su fatiscenti fabbricati, cozza con la realtà quotidiana costellata di fatiche per la ricerca di cibo, di lavoro, di aiuti di ogni tipo e di lunghe code per accedere in banca o ritirare il pacco viveri. Alla scritta « Todo es posible », più millantata che creduta, si contrappongono le più frequenti e desolanti «cerrado » e «se vende». Questa drammatica realtà è la costante che accompagna il visitatore giunto dall'Europa, il quale, nonostante possa essersi preparato, non immagina quanto lo attende. E non si tratta solo della capitale Caracas. Qui i barrios sono spesso descritti dai media nella loro tragica condizione di vita, con le abitazioni di fortuna innalzate una sull’altra come accade un po’ ovunque nelle metropoli dell’America Latina. Percorrerli rimane un’esperienza per nulla semplice. Impossibile entrarci da soli.
Risaliamo il barrio Piedra Blanca, a Montesano, un sobborgo di Caracas con il giornalista Luis López. Grazie a lui è facile incontrare quei giovanotti e quelle donne così abbandonati al loro destino. Si scattano foto, si lasciano ricordi, si scambiano auguri, si stringono mani. Prima di salutarci parte una promessa: nella preghiera di ogni giorno, affidarci a vicenda a Maria, che qui campeggia su queste misere casette, come all'ingresso dei paesi e in molte abitazioni. Qui, in Venezuela, dove è diffuso il “devozionismo” e scarsa (meno dell’uno per cento) è la frequenza domenicale. Il viaggio dalla capitale verso Carupano, dove ci porta don Derno Giorgetti, sacerdote fidei donum della diocesi di Cesena-Sarsina, consente di attraversare buona parte del Paese. Si tratta di un’occasione unica e preziosa, nonostante la fatica di quasi dieci ore di strada su una viabilità ordinaria costellata di buche e dossi, ma dove spesso si sfreccia a oltre 120 chilometri orari. I villaggi che si attraversano sono poveri.
Le attività, un tempo numerose, sono in gran parte chiuse, cerradas. Resistono le cauchere (gommisti) e gli autolavados. Tanti si improvvisano meccanici. Le saracinesche abbassate danno il senso dell’abbandono. I ristoranti hanno le insegne divelte, scolorite, a pezzi. Turisti non se ne vedono. Di occidentali neppure l’ombra. Ci avvisa subito Antonio: «Non fate dieci passi da solo, qua. Si vede lontano un miglio da dove venite. In pochi istanti ti rapinano ». Il senso dell’insicurezza è costante, nel Venezuela del 2018. Ci si guarda spesso alle spalle. Non si sta tranquilli. Si usa poco lo smartphone per timore che qualcuno te lo porti via. Si gira con i finestrini chiusi. I più li hanno oscurati tutti, anche quelli davanti. Oltre alla miseria, alla scarsità di cibo, agli scaffali vuoti nei magazzini del governo e nei farmatodo che espongono di tutto meno le medicine, qui si vive in costante apprensione. La fame può giocare brutti scherzi e la vita appare appesa a un filo. La polizia, locale o governativa, è ovunque, ma accresce i timori, anziché diminuirli. Anche la corruzione, nonostante i tantissimi controlli, è diffusa e ciò non fa altro che incrementare il senso di impotenza e di solitudine. La benzina non costa nada. «Come nada?», viene spontaneo domandare.
«Meno di “nada”», è la risposta. Si fa il pieno con mille vecchi bolívar, una mancia da miseria (un centesimo di centesimo di euro) per il benzinaio e poi si corre via veloci. Le auto sono spesso puzzle di pezzi di ricambio trovati e montati alla meglio. La stessa su cui viaggiamo offre poche garanzie: quando si sterza a destra, le ruote vanno a sinistra, ma si pigia lo stesso sull'acceleratore. Tutti corrono qua, compresi i pachidermici camion statunitensi Mack dai musi imponenti. Nel viaggio di ritorno, in cinque su un pick-up senza aria condizionata, si nota il volante montato al contrario. «Non mi pare la migliore premessa per tutte le ore che ci aspettano », osserviamo quasi scherzando. «E dovreste provare i freni come sono messi!», replica il guidatore che in oltre 11 ore ci riporta a Catia La Mar, da suor Patrizia Andrizzi. La casa di quest’ultima, dopo aver trascorso qualche giorno lontano dalla capitale, pare una reggia in raffronto a quanto visto nell’est del paese, dove siamo rimasto 72 ore senza acqua corrente. La doccia “a secchiate” e il fatto di poter usare pochi litri di acqua al giorno fanno pensare a quante volte a casa si apre il rubinetto.
Nella cittadina di Carupano la stragrande maggioranza della popolazione è impegnata nella ricerca di cibo. I più non hanno occupazione. Quando c’è, il salario percepito non è sufficiente per fare acquisti per una famiglia. Ci si affida al sussidio statale, al pacco del governo, al portatile per i liceali, alla divisa per gli studenti del primo ciclo. La concessionaria di un noto marchio statunitense, è nuova e desolatamente spoglia: non si vede una sola vettura. L’aeroporto è fuori uso. Un tempo, neanche troppo lontano, qua si arrivava in aereo. Ora occorre la cavalcata in strada. La gente viaggia per lo più sui cassoni di camion e pick-up e attaccata ai pullman Yutong (marchio cinese) che sembrano più carri bestiame che autobus di linea.
A ogni dosso ci sono improvvisati venditori di qualcosa, quasi sempre di generi alimentari. Si va dal pesce fresco al cocco, dalle banane al platano da cucinare, al bollito. I posti di blocco sono un tormentone. Ne contiamo 40 nel viaggio di ritorno. Ci fermano cinque volte. Giovani militari ci scrutano, ci chiedono da dove veniamo e dove siamo diretti. Non incontriamo problemi, ma la tensione ogni volta è palpabile. Ragazzini in divisa armati di mitra non sono per nulla tranquillizzanti. Francisco, 31enne tecnico informatico, appena conosciuto a Playa Grande, si mette alla guida dello sgangherato pick-up di don Giorgio Bissoni per tornare in parrocchia, dopo aver fatto il bagno nel mar dei Caraibi.
Nel breve tratto di strada ci supera un uomo alla guida di una macchina di lusso. «Quello o è un chavista o è un mafioso », dice senza tanti preamboli. Capisco subito qual è la realtà: qua chi sta bene o si schiera con il governo o ha a che fare con il narcotraffico. Chi non sta con questi mondi è condannato a un’esistenza di fatiche e di rinunce o a emigrare, come ha già fatto il 10 per cento della popolazione. “Carnet de la patria” e “Programa de substento directo”, leggo in una pubblicità su un canale nazionale. Ho visto immobilismo, fatalismo, a volte rassegnazione. Non mancano le esperienze positive e i segni di speranza. Certo, i messaggi che il governo diffonde non invitano a intraprendere nulla. Sull’“autopista”, all’affollata area di servizio El Guapetón (l’unica che possa definirsi tale, anche se si tratta di un capannone con il tetto in lamiera) un signore forse un po’ alticcio ci dice quasi cantando: «Questo è il più bel Paese del mondo». Rimaniamo sbalorditi, in silenzio. In un attimo, si riavvolge il film del viaggio. In realtà, non si sa più che altro pensare.