Myanmar. Tra gli schiavi informatici nelle centrali delle cyber-truffe
Lavoratori-schiavi liberati dai centri delle truffe online nel Myanmar su un traghetto al confine thailandese nella provincia di Tajk
Sono 7.000 soltanto nella città frontaliera di Miyawaddy, in maggioranza cinesi ma anche di una ventina di altre nazionalità. Attendono il rimpatrio nei centri di raccolta sui due lati del confine tra Myanmar e Thailandia dopo i fermi di massa operati dai militari birmani e soprattutto delle milizie Karen nei territori sotto il loro rispettivo controllo. Vivono in condizioni intollerabili e perlopiù in attesa di un contatto da famiglie, conoscenti o benefattori, costretti a elemosinare un pugno di riso nell’impossibilità di vivere del rivolo del soccorso internazionale rimasto dopo la sospensione decretata da Trump delle attività assistenziali di Usaid che hanno privato di cibo, servizi essenziali e medicinali anche i campi profughi, sorti come funghi nella terra di nessuno, dove vivono circa 100mila birmani da tempo rifugiati in Thailandia dove di fatto non possono mettere piede.
Un inferno condiviso ma non per questo più tollerabile per chi ha vissuto per settimane, mesi o in diversi casi anche anni in condizioni di sostanziale schiavitù nelle località birmane dove sono cresciuti gli “hub” del crimine informatico. Cittadelle criminali in via di smantellamento sotto la pressione congiunta di Pechino e Bangkok sui militari birmani al potere da quattro anni e sulle milizie etniche che li combattono e che nella loro offensiva hanno preso aree prima controllate da agguerrite gang di origine perlopiù cinese e dai loro consociati locali.
Una repressione del crimine organizzato che è però guidata dal timore di destabilizzazione dei confini e da perdita di influenza dei vicini che per anni hanno permesso si sviluppasse una realtà che non è l’unica nel Sudest asiatico e che vede vittime su due fronti: quello delle molte migliaia di individui attratti con l’inganno e trattenuti con la coercizione per operare frodi informatiche di ogni genere e i molti milioni di altri che hanno ceduto con gravi conseguenze alle lusinghe o alle minacce veicolate dal mezzo informatico.
Oggi il Sudest asiatico è centro di tre hub globali del cyber-criminalità quanto a dimensioni, fatturato e influenza: oltre al Myanmar, anche Cambogia e Filippine. Tre realtà, tre Paesi diversi (non sono però immuni Thailandia, Vietnam, Laos e Indonesia) in cui i network criminali specializzati hanno saputo approfittare di condizioni favorevoli (ad esempio la maggiore apertura internazionale delle Zone economiche speciali) per installarsi e da qui operare anche oltre i confini regionali o continentali.
Chi è “arruolato” appartiene a una quarantina di nazionalità finora individuate, ma i più ambiti sono quelli con competenze nell’universo digitale. Da un lato perché – con una disoccupazione intellettuale ancora elevato nei diversi Paesi di provenienza – sono più facilmente sensibili all’offerta di impieghi adeguati alle loro capacità e ben retribuiti, dall’altro perché sono maggiormente in grado di operare sulle piattaforme social per creare rapporti ingannevoli con internauti attirati in relazioni interpersonali fraudolente o convinte a condividere lucrosi investimenti.
Secondo un rapporto del 2023 dell’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, sarebbero 220mila gli individui “arruolati” dai gruppi criminali per operare reati informatici in questi Paesi e non è un caso se il rapporto ha chiamato i governi locali a fare di più per tutelare i loro cittadini dallo sfruttamento del racket e contemporaneamente per assistere le vittime delle truffe con politiche di prevenzione ma anche di soccorso. L’odissea dei 42 vietnamiti “arruolati” in un centro di criminalità informatica all’interno di uno delle molte case da gioco aperte da investitori cinesi in Cambogia e fuggiti nel 2022 attraversando a nuoto il fiume Binh Di, è stato un forte segnale di allarme, tra i primi a emergere per delineare – anche per la testimonianza loro dei pochi sfuggiti ai carcerieri – forme di criminalità fortemente legate alle nuove tecnologie che evolvono costantemente e crescono in virulenza.
Basti pensare che, secondo un rapporto dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni, lo scorso anno i casi di arruolamento forzato registrati hanno visto un aumento del 230 per cento sull’anno precedente. Anche con la “liberazione” dopo avere lucrato sulle sue capacità e paure oppure dopo la fuga, chi si salva non è davvero libero perché deve subire vergogna, persecuzione e azioni legali una volta rimpatriato. Tuttavia, le stesse autorità che sembrano perlopiù incapaci di salvare i “nuovi schiavi” dagli annunci di lavoro ingannevoli ampiamente diffusi su Internet o di ottenerne la liberazione, oltre che perseguirli sembrano incompetenti a fermare un fenomeno che sulla rete aggira moderatori dei siti, limiti legali e controlli.
L’attenzione però non può esaurirsi nel contrasto a questo fenomeno criminale, perché con un valore prossimo ai 44 miliardi di dollari all’anno, il crimine informatico con base nel Sudest asiatico rappresenta oggi una delle principali fonti di finanziamento della criminalità transnazionale, insieme agli stupefacenti, allo sfruttamento sessuale e al traffico di animali esotici ma è quella con le maggiori possibilità di espansione globale.
A volte autorità o imprenditori senza scrupoli sono parte del problema. In Myanmar, come già detto, in parallelo con gli investimenti e gli interventi di aziende statali cinesi nei settori dell’energia e delle infrastruture, si sono radicati sul territorio bande criminali che hanno creato “zone franche” a beneficio – secondo la localizzazione – di settori delle forze armate e della leadership politico-amministrativa oppure dei loro omologhi nelle aree controllate dalle minoranze etniche. Nel 2024 il rapporto Trafficking in Persons dell’Ufficio Onu per la droga e il crimine ha evidenziato come funzionari thailandesi (probabilmente non ignari che 3.000 connazionali sono “prigionieri” dei cyber-criminali in Cambogia e centinaia in Myanmar) abbiano ricevuto denaro da intermediari e trafficanti per consentire loro di operare senza impunità in territorio thailandese. Qui come in Cambogia e nelle Filippine la corruzione e la connivenza erodono l’impegno a contrastare attività criminose transnazionali, oltre che legalità e democrazia.
Gli interessi in gioco sono molti. In Myanmar, l’ “industria” della cyber-criminalità ha in parte finanziato le milizie filo-governative per azioni riconoscibili come crimini contro l’umanità e crimini di guerra in Cambogia le bande criminali hanno approfittato della corruzione e repressione sotto il governo autocratico di Hun Sen (nel 2021 i loro proventi e quelli delle case da gioco in mani cinese equivalevano alla metà del Pil nazionale) e nelle Filippine hanno deviato a lungo l’interesse della politica e degli investigatori nonostante l’evidenza e le denunce.