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L'AGONIA DEI DISSIDENTI. Cuba, Fariñas va avanti: «Sono pronto a morire»

da Rio de Janeiro Gherardo Milanesi sabato 13 marzo 2010
La repressione a Cuba continua a mietere vittime. Dopo la morte di Orlando Zapata Tamayo, oppositore del regime scomparso lo scorso 23 febbraio alla fine di uno sciopero della fame durato 85 giorni, giovedì scorso è stata la volta del giornalista Guillermo Fariñas, ricoverato d’urgenza in condizioni gravissime dopo 17 giorni trascorsi nella sua abitazione senza mangiare e senza bere. Fariñas, che dal 1995 ad oggi ha messo in atto 23 volte lo sciopero della fame, stava protestando contro la linea dura del governo di Raul Castro, che non intende liberare 26 dissidenti gravemente malati. «Sono disposto a morire esattamente come ha fatto Orlando Tamayo», aveva dichiarato nei giorni scorsi Fariñas al quotidiano spagnolo El Pais, «non mi faccio nessuna illusione che il mio sacrificio possa cambiare l’atteggiamento del regime. Ma mi auguro che la mia sofferenza apra gli occhi alla comunità internazionale». L’altro ieri, nel corso di una breve telefonata con Lech Walesa, ha chiesto al leader storico di Solidarnosc di deporre un fiore sulla sua tomba «quando Cuba sarà libera». Fariñas, che nonostante il ricovero in terapia intensiva per uno svenimento intende continuare lo sciopero della fame, non è certo l’unico a non farsi illusioni sulle intenzioni del regime. Nelle carceri cubane sono oggi rinchiusi circa 200 dissidenti politici (50 di questi furono arrestati durante una campagna di repressione attuata nel 2003 e conosciuta come “Primavera Nera”), mentre altre 5mila persone sono state condannate perché rappresentano «un pericolo potenziale» per lo Stato. In altri termini, sono prigionieri senza una motivazione specifica. Dopo le prime misure di facciata prese subito dopo la sua nomina alla guida del regime in sostituzione del fratello Fidel, nel febbraio del 2008, Raul Castro non ha mai dato segnale di voler ammorbidire la linea dura del fratello contro gli oppositori politici. La recessione mondiale e le scarsissime aperture all’economia di mercato hanno di fatto aumentato il malcontento a Cuba e come reazione il governo ha scelto di continuare e rafforzare la politica repressiva. Che ovviamente viene negata a parole. «Noi non condanniamo a morte e non torturiamo nessuno – ha dichiarato a più riprese Raul Castro –. Questo lo fanno gli Stati Uniti a Guantanamo (la base americana in suolo cubano dove sono stati denunciati abusi contro terroristi detenuti illegalmente, ndr.)». «Nel nostro Paese gli avversari politici non vengono torturati e non vengono uccisi – ha dichiarato Fidel Castro in una nota ufficiale mandata in onda dalla televisione di Stato dopo la morte di Orlando Zapata –. E alla gente viene detta la verità, compagna inseparabile del popolo cubano». Queste insostenibili affermazioni propagandistiche ancor oggi sono appoggiate o per lo meno non contestate da alcuni Paesi. Per rimanere in America Latina, il regime castrista non riceve critiche né da parte del Venezuela di Hugo Chavez, né da parte della Bolivia di Evo Morales né dal presidente brasiliano Inacio Lula da Silva, che pochi giorni fa ha rilasciato una dichiarazione nella quale equiparava Orlando Zapata a un criminale comune. «Non si può usare lo strumento dello sciopero della fame per ottenere la liberazione dei detenuti», ha affermato Lula. Che ha pure aggiunto: «Immaginate se i detenuti brasiliani cominciassero a fare lo sciopero della fame per ottenere la liberazione. Cosa dovrebbe fare in quel caso la politica? Cedere al ricatto di questi delinquenti e liberarli?». Parole alle quali ieri hanno fatto eco quelle della figlia del Che, Aleida Guevara, che si trovava in Brasile per una conferenza organizzata dal Mst (il Movimento dei contadini senza terra): «I dissidenti politici in sciopero della fame a Cuba – ha dichiarato – sono delinquenti comuni. Sono personaggi creati dai media per calunniare Cuba e ricevono soldi da imprenditori americani ed europei che si oppongono alla Revolucion». Fuori dall’area latinoamericana, ed escludendo Paesi vetero-comunisti o di profondi sentimenti anti-americani come l’Iran, tutta la comunità internazionale è però concorde nel condannare la repressione in atto a Cuba. Proprio l’altro ieri l’Unione Europea ha approvato a larga maggioranza (509 voti a favore, 30 contro e 14 astenuti) una risoluzione di condanna per la morte di Orlando Zapata. Sempre giovedì scorso il segretario allo Stato Usa Hillary Clinton ha presentato una relazione sul rispetto dei diritti umani in 194 Paesi del mondo, con durissime critiche a Cuba. Il governo cubano ha risposto all’Unione Europea accusando Strasburgo di «essere allineato alla politica ostile degli Stati Uniti». È però un fatto che la Croce Rossa Internazionale da tempo chieda invano di poter visitare Cuba, mentre proteste vengono anche da Amnesty International alla quale sono state negate tutte le richieste di ispezione delle carceri dei fratelli Castro. Le associazioni umanitarie in questi ultimi giorni stanno facendo pressione sui dissidenti politici in sciopero della fame perché non mettano inutilmente a repentaglio la loro vita dal momento che il regime sembra del tutto insensibile alla loro protesta. In seguito allo svenimento di Fariñas, quattro altri detenuti politici hanno interrotto la loro protesta e hanno ripreso ad alimentarsi. «Ma non credo proprio che Fariñas rinunci alla sua protesta – spiega Elizardo Sanchez, presidente della Commissione nazionale dei diritti umani a Cuba (un’organizzazione che opera in clandestinità) –. Dalle informazioni in nostro possesso, prevediamo che lotterà fino all’ultimo». Un altro sacrificio vano?