Il reportage. La nuova rivoluzione cubana: la fame è più forte della paura
All'alba, una donna rovista fra i cassonetti nel centro dell'Avana in cerca di qualcosa da mangiare o da rivendere
Nel giorno in cui il prezzo della benzina è quintuplicato e Cuba per la prima volta nella storia ha chiesto al mondo aiuto per sfamare la sua gente, Manuel, alla fine di un turno in fabbrica, si è fatto un’idea chiara della situazione: «Siamo diventati la Corea del Nord dei Caraibi». Il 40enne (che ha chiesto di usare un nome di fantasia) parla all’uscita della Partagas, storica casa di sigari dell’Avana, mentre si accende un Cohiba. Ogni giorno ne riceve cinque che non hanno passato l’ispezione di qualità, a integrare uno stipendio di 12mila pesos al mese che, sul mercato nero, equivalgono a meno di 40 dollari americani. Molti altri operai li vendono – un turista può pagarli fino a 10 dollari l’uno – ma lui ne fuma tre per sera. «È l’unica soddisfazione che mi resta in questo Paese dove nulla dipende da te, tutto viene dall’alto, ed è sempre più assurdo e corrotto», dice in spagnolo. Non è imprudente esprimersi così? Scrolla le spalle. «Spero che non mi stia registrando. Tutti la pensano come me. Ormai non abbiamo più nulla da perdere». In realtà la prigione assicurata a chi «disturba l’ordine pubblico» con comportamenti sgraditi al regime fa ancora paura a Manuel come alla maggior parte dei cubani. Nessuno ha dimenticato come è finita nel luglio 2021, quando migliaia di persone scesero in piazza pacificamente dando vita alle più grandi manifestazioni dalla Rivoluzione del 1959. In circa 1.400 vennero arrestati, ricevendo sentenze fino a 15 anni, e in 200, secondo la giornalista locale Yoani Sánchez, restano desaparecidos. Negli ultimi mesi, mentre una crisi senza precedenti provocava mugugni e malcontento sempre più espliciti, il presidente Miguel Díaz-Canel ha ordinato un giro di vite preventivo, sfociato in 282 casi di abuso della polizia e in 95 arresti solo a febbraio, stando all'Osservatorio cubano per i diritti umani.
È per questo che l’annuncio di un aumento del 500 per cento del costo del carburante (che farà impennare ulteriormente l’inflazione, già incontrollata a oltre il 30 per cento), seguito dalla decisione di spegnere due terzi dei lampioni del Paese, non ha scatenato nessuna reazione visibile nella capitale. A parte le file di taxi ai distributori nei giorni precedenti il rincaro, tutto è continuato come prima. I ragazzini giocano a calcio scalzi davanti al Malecón, spruzzati dalle onde che si schiantano contro la muraglia, i giovani dalla parlantina ipnotizzante rifilano ai turisti souvenir troppo cari o li raggirano sul cambio del dollaro, troppe ragazzine propongono “compagnia” a stranieri dai capelli bianchi. Ma durante le attese di due, tre ore alle fermate dei bus, dopo che la compagnia dei trasporti della capitale ha paralizzato 309 mezzi dei 561 che dovrebbero fornire il servizio (negli anni Ottanta se ne contavano 2.500), la gente parla, anche ai forestieri. Come mai ha fatto prima. «Quelli là in alto non capiscono niente. No, capiscono, ma non gli importa niente di come viviamo noi qui sotto. Loro e i loro amici, i generali, stanno bene. Scommetto che il latte, loro, ce l’hanno». Lascia a bocca aperta il tono di Álvaro, guida turistica del Capitolio. Usa l’inglese e continua a sorridere anche mentre fa i commenti più taglienti, ma non risparmia nulla al regime. Arriva a ridere apertamente nel ricordare che il vice primo ministro Jorge Luis Tapía Fonseca ha incolpato per la crisi che ha gettato l’88 per cento della popolazione in povertà i lavoratori cubani, che mancherebbero di «cultura della produttività». «Produttivi? E per fare che, ripetere per due soldi le bugie che ci dicono di raccontare ai turisti? Produttivi a pancia vuota? Non sanno che cosa vuole dire non poter sfamare i nostri figli».
A Cuba, in questi giorni, non c’è latte, non ci sono uova, c’è pochissima farina. Tanto che il governo si è rassegnato a lanciare un allarme al Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, come non aveva mai fatto in 65 anni di sistema socialista. Ha anche identificato un capro espiatorio, l’ex ministro dell’Economia Alejandro Gil, indagato per «gravi errori» commessi quando era a capo del dicastero, che avrebbero portato agli aumenti dei prezzi. L’Onu intanto ha risposto all’appello, insieme a una manciata di Paesi, Brasile e Canada in testa, inviando centinaia di tonnellate di latte in polvere per garantire la distribuzione ai minori di sette anni, ma solo per marzo e aprile.
I negozi di Stato dove si possono comprare derrate di base con la libreta di razioni individuali calmierate, però, restano vuoti. Le cinque uova, il chilo di latte in polvere, i due chili di riso e il chilo e mezzo di carne al mese promessi a ogni abitante dell’isola sono introvabili a prezzi sovvenzionati. Qualcosa di più, soprattutto frutta e verdura, si può racimolare pagando dieci volte tanto sulle bancarelle agli angoli delle strade. E i piccoli business – risultato della apertura all’iniziativa privata degli anni Novanta – che vendono in dollari, hanno biscotti, piselli in scatola, caffè, persino una simil-Nutella, ma gli importi sui cartellini sono paragonabili a quelli dei supermercati italiani. La disperazione allora spinge a sfogarsi, senza remore. «La produzione agricola è ai minimi storici – spiega la giornalista cubana Glenda Boza Ibarra –. Manca tutto quello che viene dall’estero che potrebbe sostenerla, dai fertilizzanti al mangime per le galline al diesel per i macchinari agricoli e il trasporto, e non solo per via dell’embargo americano. È che nessun Paese, neanche la Russia, è più disposto a farci credito. Sempre di più manca anche la manodopera, e non per pigrizia».
Un bracciante che raccoglie foglie di tabacco o frutta sotto il sole dei Caraibi sei giorni alla settimana guadagna il corrispondente di 20 dollari al mese. «Bisogna essere disperati per farlo – continua Manuel – almeno in città si può cercare di arrotondare con le mance o vendendo qualcosa ai visitatori».
Il turismo, fra le risorse principali dell’isola, però, è crollato. La pandemia l’ha bloccato fino al novembre 2021, più a lungo di molte altre destinazioni, e i turisti tardano a tornare. L’aggiunta di Cuba alla lista dei Paesi terroristi voluta da Donald Trump, inoltre, tiene lontane decine di migliaia di viaggiatori che non vogliono vedersi negare l’ingresso negli Stati Uniti per aver passato qualche giorno sulle spiagge di Varadero (lo si può riottenere solo chiedendo un visto, dopo un colloquio in un’ambasciata americana). Ma anche la qualità dell’offerta turistica è calata. Gli hotel a cinque stelle da 400 dollari a notte non sono immuni dai frequenti black out, dal wifi lento e saltuario e dall’impossibilità di bere un cappuccino a colazione quando non c’è una goccia di latte in tutta l’Avana. Il servizio dei resort di mare non è all’altezza di quelli di Cancun o della Repubblica dominicana.
Nonostante le offerte competitive, per molti è abbastanza per prenotare altrove. E senza turisti Cuba non può vivere. «L’unica speranza che abbiamo, dal primo all’ultimo, è andarcene» continua Alvaro, che ha 33 anni, una laurea in ingegneria civile e da anni cerca di risparmiare i 5mila dollari che gli servono per scappare. Negli ultimi due anni fra i 600mila e i 700mila cubani hanno lasciato l’isola, secondo varie stime, vale a dire il 10 per cento della popolazione attiva. Un’altra ragione della penuria di forza lavoro, che si riflette in campi e fabbriche vuote (un’intera ala della Partagas è chiusa da mesi).
La meta più comune sono gli Stati Uniti, per prossimità e perché moltissimi hanno familiari o amici negli States. Ma entrare in America non è facile come una volta. Poco più di un anno fa Joe Biden ha cambiato le regole. Ora per poter fare domanda di asilo non basta mettere piede sul suolo statunitense, bisogna arrivarci legalmente, passando attraverso un complicato processo di selezione presso l’ambasciate Usa dell’Avana, che richiede fino a un anno, accetta poche migliaia di persone al mese e che, attualmente, è persino sospeso, ufficialmente a causa di «carenza di personale» anche se i cubani scuotono la testa e dicono che fra Trump e Biden nessuno vuole più saperne di loro. Come ai tempi passati, scappano anche i ballerini: la compagnia del Balletto nazionale di Cuba è tornata l’altro ieri da una tournée a Porto Rico con almeno nove componenti in meno.
La via più usata dalla gente comune, spiega una dozzina di giovani sentiti all’Avana e confermano le agenzie umanitarie, è invece quella del Nicaragua, l’unico Paese della regione che non richiede un visto. Da lì comincia il cammino di due settimane e 2.400 chilometri fino al confine con il Texas. In Messico, i migranti si fanno fare documenti falsi. «È meglio entrare negli Usa come messicani che come cubani», conclude Álvaro. Per una semplice ragione: «Almeno se ti deportano non ti rimandano qui