MINORANZA NEL MIRINO. Cristiani sacrificati: strappo dell’esercito
Trentasei morti tra i cristiani copti d’Egitto non li aveva fatti nemmeno l’attentato alla 'chiesa dei due santi', ad Alessandria, la notte di capodanno del 2011. Ha dovuto pensarci l’esercito del 'nuovo Egitto' a realizzare una simile strage, sostenendo attivamente i gruppi di estremisti salafiti, che si sono dedicati alla caccia al cristiano massacrando sistematicamente quelli che riuscivano a isolare dal corpo della folla, e facendo strage all’interno di quest’ultima con i caroselli dei propri blindati lanciati a velocità consapevolmente omicida. Il nome di 'Piazza dei Martiri', con il quale era stata ribattezzata la Piazza Tahir, per rendere omaggio ai caduti durante la rivoluzione, fino a sabato sera evocava ricordi comuni e sentimenti di fratellanza tra i musulmani e i copti di Egitto. Da domenica sera le cose non stanno più così, e per ognuna delle due comunità che insieme compongono l’identità egiziana quella parola 'martiri' evoca persone, momenti e concetti diversi, secondo la peggiore tradizione delle guerre di religione. Il patriarca e il gran muftì hanno lanciato entrambi il loro appello alla moderazione, ma la collaborazione nel cercare di non accrescere ulteriormente la tensione non può e non deve coprire l’attribuzione delle responsabilità, dalle quali le decine di migliaia di copti che protestavano pacificamente sono largamente esenti.
La strage di domenica segna la fine dell’età dell’innocenza della rivoluzione egiziana, e potrebbe aprire una nuova fase, in cui quelli che a diverso titolo pensano di detenere i mezzi di coercizione, la forza del numero, quella dell’organizzazione o semplicemente del fanatismo hanno chiarito che intendono giocare la partita per il potere senza concedere granché ai 'comprimari'. Il fatto che l’esatta dinamica degli incidenti non sia ancora chiarita – l’opacità del sistema informativo resta una caratteristica di continuità tra l’Egitto di Mubarak e l’attuale – lascia se non altro un margine di ambiguità rispetto alle ipotesi più pessimiste, che parlano di un patto di ferro già sostanzialmente sottoscritto tra esercito e Fratelli Musulmani per la gestione congiunta del potere. Le voci ricorrenti e ricorrentemente smentite delle dimissioni del primo ministro Essam Sharaf aggiungono confusione alla confusione, anche perché le dimissioni rimetterebbero il potere nelle mani del Consiglio supremo delle Forze armate e del suo leader, il generale Hussein Tantawi, cioè il numero uno di quello stesso esercito che ha sparato sulla folla. Ciò che più preoccupa è però il sospetto che, al di sotto dell’intesa tra esercito e Fratellanza, si celi uno scontro senza esclusione di colpi che proprio l’indulgenza mostrata dalle Forze armare nei confronti delle violenze anticopte e la stessa attenzione nei confronti dei salafiti disvelerebbe: l’indulgenza concorrerebbe a prevenire le possibili 'accuse' di laicità che dovessero essere lanciate dai Fratelli Musulmani verso i ver- tici militari, mentre l’attenzione contribuirebbe a rafforzare un potenziale concorrente della Fratellanza con cui tenerla sotto possibile scacco. Nel frattempo i copti si ritrovano in una posizione tragica e paradossale: proprio loro che costituiscono l’anima più antica (preislamica e pre-araba) dell’Egitto sono trattati sempre più come un corpo estraneo, secondo una dinamica già stata vista all’opera nei confronti dei tutte le minoranze cristiane nel Levante nel mondo musulmano.
Si tratta di una posizione per molti versi analoga a quella degli ebrei nella Polonia tra le due guerre: una minoranza troppo numerosa e troppo evidente per essere ignorata, nei cui confronti montava un sentimento di sorda ostilità che concorse a rendere l’Olocausto meno complicato da perseguire. La gran parte delle manifestazioni provenienti dalla società egiziana sono state oggi di solidarietà nei confronti dei copti. E questo non può che confortare. Ma allo stesso tempo gli scontri sono continuati, sia pure in tono minor e soprattutto lontano dalla capitale e l’agenda di questo anno è costellata di stragi e ammazzamenti di copti da parte di folle sobillate ad arte, che ci dicono che la campagna di terrore contro i copti potrebbe persino alimentare una guerra di religione. Le decisioni che i vertici militari adotteranno nelle prossime ore e fino alle elezioni di novembre potranno fornirci qualche lume. Ma due importanti precedenti storici circa il rapporto tra militari e tolleranza religiosa in area islamica sono tutt’altro che rassicuranti. Il primo è quello pachistano. In Pakistan, per meglio preservare il proprio potere dotandolo di una vernice di legittimità che non fosse riconducibile alla mera forza, il generale golpista Zia ul Haq inflisse una decisa sterzata islamica alle istituzioni del Paese, riposizionando le Forze armate come guardiane della repubblica islamica e tagliando l’erba sotto i piedi alle formazioni tradizionali dell’islamismo politico. Il secondo è quello turco, spesso evocato nei giorni della trionfale visita di Erdogan in Egitto come possibile via di uscita dal caos.
Nel caso egiziano si tratterebbe però di una variante che dovrebbe coniugare la stagione kemalista e quella attuale: da un lato il ruolo dei militari quali garanti delle istituzioni statali (ma non certo della loro laicità) e del posizionamento internazionale del Paese verrebbe mantenuto; dall’altro, l’islamismo politico riceverebbe una definitiva investitura istituzionale nel nuovo Egitto. Al di là della complessità di una simile sincronia, difficile non ricordare il tragico ammonimento della storia: che il varo e il successo del kemalismo (e oggi del suo superamento) furono successivi e in qualche modo dovuti all’operazione di forzata omogeneizzazione etnica e religiosa condotta dalle autorità politiche turche prima, durante e dopo la Prima guerra mondiale con i metodi che conosciamo. Che nessuna di queste opzioni appaia rassicurante per i copti egiziani è drammaticamente evidente.