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La Giornata mondiale. Crisi del rinascimento africano e dovere della cooperazione

Giulio Albanese martedì 25 maggio 2021

Fare memoria dell’Africa è un dovere condiviso, soprattutto in questo tempo dolorosamente segnato dalla pandemia. L’occasione, come ogni anno, è offerta dalla celebrazione della Giornata mondiale dell’Africa la cui data coincide con quella di fondazione dell’Organizzazione dell’Unità Africana (Oua), progenitrice dell’attuale Unione Africana (Ua). Era infatti il 25 maggio del 1963 quando nel corso della storica Conferenza di Addis Abeba, sotto l’impetuoso spirare del 'Vento del cambiamento' ( Wind of change), come disse l’allora premier britannico Harold Macmillan, presero il testimone le nuove classi dirigenti africane.

Dopo una lunga discussione nella capitale etiopica, i capi di Stato e di Governo africani sancirono, come base della nuova unità, il principio del «rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale dello Stato» (in altre parole nessuno poteva interferire negli affari interni di un Paese, anche in caso di colpi di Stato o dittature), nonché quello dell’«intangibilità delle frontiere» ereditate dal colonialismo, cioè lo status quo.

Nacque così, segnata da una sorta di peccato originale, l’Oua. Riguardo alla non ingerenza, la nascita della Ua (2002) ha certamente rappresentato un superamento di questo assioma, mentre sulla questione dei confini l’orientamento è rimasto incentrato sul mantenimento della geografia coloniale, nonostante vi siano già due precedenti di segno diverso: la secessione dell’Eritrea dall’Etiopia (1993) e quella successiva del Sud Sudan dal Sudan (2011). Sta di fatto che a distanza di 58 anni dalla Conferenza di Addis Abeba, l’Africa oggi sta attraversando una penosa congiuntura.

Anzitutto, per l’impennata della conflittualità nella macro regione subsahariana: dalla Somalia al settore orientale della Repubblica Democratica del Congo; dalla Repubblica Centrafricana alla Nigeria settentrionale; dalla recente guerra nel Tigray all’anarchia ancora in atto nella neonata Repubblica del Sud Sudan. E cosa dire dei pesanti condizionamenti derivanti dall’ormai lunga crisi libica, con la costante penetrazione di cellule jihadiste verso meridione? In questo caso la contaminazione si è acuita con l’ingresso di formazioni del Daesh-Isis non solo nella fascia saheliana, ma addirittura nel Mozambico settentrionale. Se aggiungiamo la crisi economica scatenata dal Covid-19, per non parlare degli effetti dei cambiamenti climatici, il declamato Rinascimento Africano sembra essere svanito amaramente. Con il risultato che i mali antichi permangono – quelli, in particolare, dell’esclusione sociale e del deficit di virtuosismo da parte di alcune leadership locali – rivelandosi fenomeni difficili da contrastare.

Sebbene vi sia una significativa maturazione del diritto di cittadinanza in molti Paesi africani, ancora oggi, le élite dominanti tendono ad assecondare gli interessi stranieri legati allo sfruttamento delle commodity, energetiche in primo luogo. Il rischio è che possano affievolirsi le prerogative della sovranità di popoli e Stati, proprio laddove è più evidente lo sfruttamento indiscriminato delle risorse.

Ecco che allora il tema della mobilità umana, che tanto preoccupa le cancellerie europee, diventa intelligibile nella cornice della «globalizzazione dell’indifferenza». Sebbene il panafricanismo resti un progetto in fieri, è evidente che occorre riaffermare una limpida solidarietà verso l’Africa. Per dirla con Léopold Sédar Senghor: «La vera cultura è mettere radici e sradicarsi. Mettere radici nel più profondo della terra natia. Nella sua eredità spirituale. Ma è anche sradicarsi e cioè aprirsi alla pioggia e al sole, ai fecondi apporti delle civiltà straniere...». Una cooperazione che, soprattutto in tempi di crisi, vale per tutti.