Giustizia. La fuga dalla Corte penale di molti Paesi africani
La nuona sede della Corte penale internazionale all'Aja in Olanda (Ansa)
I leader africani stanno pianificando un’uscita di massa dallo statuto della Corte penale internazionale (Cpi) dopo aver approvato una risoluzione non-vincolante. Gli unici a opporsi sembrano la Nigeria e il Senegal. «La Cpi sta minacciando la sovranità dei nostri Stati e prendendo di mira ingiustamente gli africani», reclamano gran parte dei 35 governi firmatari. Le discussioni su tale iniziativa sono avvenute in settimana durante il summit dell’Unione Africana (Ua) ad Addis Abeba dove si sono riuniti tutti i ministri degli esteri del continente.
Molti dei funzionari presenti hanno confermato che faranno comunque appello al Consiglio di sicurezza dell’Onu affinché la Cpi venga riformata. «Sebbene questo sia stato un primo passo importante per contrastare l’operato della Corte penale internazionale – affermano gli esperti –, bisognerà aspettare ancora sei mesi per capire se tale risoluzione sarà davvero messa in pratica». Tra i più accesi sostenitori dell’abbandono della Cpi ci sono il Sudafrica e il Kenya.
Gli indagati eccellenti
Quest’ultimo Paese ha avuto indagati per anni l’attuale presidente, Uhuru Kenyatta, e il suo vice, William Ruto, accusati di aver alimentato le violenze post-elettorali del 2007 in cui morirono più di 1.300 civili. Il Sudafrica, invece, si rifiutò di arrestare nel 2015 il presidente sudanese in visita, Omar el-Bashir, ricercato per crimini di guerra e contro l’umanità commessi nella regione del Darfur. La Cpi, fondata a Roma nel 1998, ha invece continuamente negato di focalizzare il suo interesse verso leader africani.