Coronavirus. Gli indios si barricano nella foresta. Colpiti tutti i Paesi amazzonici
Il porto fluviale di Manaus in Amazzonia brasiliana
Il nome è tabù. La parola «coronavirus» non viene mai pronunciata nelle comunità indigene dell’Amazzonia. Per non «attirare il male». Eppure il virus ormai è arrivato anche nella sterminata regione che si estende per oltre un terzo dell’America Latina, abbracciando nove Paesi, dalla Guyana al Brasile. In base alla mappatura realizzata dalla Rete ecclesiale panamazzonica (Repam) e aggiornata al 24 marzo, finora sono stati registrati 204 casi. Il dato non considera solo i nativi che rappresentano poco più dell’11 per cento dei 35 milioni di abitanti dell’area. «Non esiste una cifra disaggregata sulla diffusione del virus fra gli indios.
I dati ufficiali, inoltre, considerano solo le capitali provinciali. Non si sa niente dei villaggi. E questo è un problema grave», spiega Julio Caldera di Repam. Perché proprio sugli insediamenti più remoti e sugli indigeni, l’impatto del Covid-19 rischia di essere devastante. «Potrebbe provocare un genocidio», afferma Sofia Mendoça, ricercatrice dell’Università federale di San Paolo, in Brasile. Come il passato recente dimostra, gli indios sono particolarmente vulnerabili di fronte a malattie nuove. Soprattutto quelle di tipo respiratorio, la cui mortalità è quasi doppia rispetto al resto della popolazione. Eppure, al di là dei proclami, finora, i governi dei diversi Paesi della regione non hanno disposto un piano complessivo per frenare la diffusione sui nativi. Di fronte al caos e all’inerzia, questi ultimi hanno risposto auto-organizzandosi.
La risposta indigena
Via cellulare – mezzo molto diffuso – i leader indigeni hanno chiesto alle varie comunità sparse sul territorio di evitare gli spostamenti. Molti indios, dalle città dove risiedono, sono tornati nella foresta. In ogni caso, i nuovi arrivati sono stati messi in isolamento in capanne utilizzate per i riti di passaggio tribali. Gli Awá e i Guajajara del Maranhão brasiliano addirittura sono migrati nella parte più interna della selva sperando di sfuggire al virus. Ovunque, inoltre, brigate volontarie monitorano gli accessi ai villaggi, sbarrando la strada a visitatori esterni. Questo ha portato un forte contrasto nella Vale do Javarí, adagiata sul punto di congiunzione tra Colombia, Perù e Brasile. La valle è casa di 16 popoli in isolamento volontario, la più grande concentrazione del pianeta. All’inizio del mese, il governo di Jair Bolsonaro ha attenuato il divieto di contatto con questi ultimi, vigente dal ritorno della democrazia. Ad approfittarne subito è stata Ethnos 360, potente gruppo evangelicale statunitense che, come denunciato dai leader nativi locali, ha organizzato una missione nel Javarí in piena pandemia. E non è intenzionata a cancellarla nonostante la protesta dell’Unione dei popoli indigeni della valle del Javarí (Univaja). E del Consiglio indigenista brasiliano, della Chiesa cattolica brasiliana, i cui missionari hanno sospeso le visite alle comunità proprio per evitare il contagio.
Una sanità al limite
Le misure spontanee adottate dalle comunità sono importanti. È, però, necessario, però – come sottolineato da Repam – un intervento responsabile dei governi. A preoccupare, in particolare, la situazione del Brasile dopo l’espulsione dei medici cubani – 301 sul totale di 372 – decisa da Bolsonaro. E dei tagli ai fondi per l’organismo incaricato della salute indigena. Un dramma non solo brasiliano, in realtà. Ovunque, in Amazzonia, i servizi sanitari sono al limite. «I centri locali non hanno attrezzature. I malati andrebbero trasportati in città ma i collegamenti via fiume sono bloccati», racconta padre Miguel Ángel Cadenas, di Iquitos, in Perù. Proprio nel suo ospedale regionale vengono concentrati i casi di Covid-19 dal resto del resto del dipartimento di Loreto. «Ma quest’ultimo è già al collasso per l’epidemia di dengue ha colpito 8mila persone – dice Daniela Andrade, della radio diocesana di Nauta –. Come farà ora con il coronavirus?»