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VIA AL VERTICE DI COPENAGHEN. Un'agenda «ambiziosa» contro la bomba-clima

Daniele Zappalà lunedì 7 dicembre 2009
Si apre oggi a Copenaghen la Conferenza mondiale dell'Onu sul clima: 15mila partecipanti in rappresentanza di 192 Paesi e gli occhi del mondo puntati sulla capitale danese per capire e giudicare se da questo vertice uscirà davvero qualcosa di nuovo, di importante, di duraturo e, soprattutto, di effettivamente concreto. Un vertice al quale, nella parte conclusiva prenderanno parte i leader di 105 nazioni, Sono almeno due le grandi sfide tecniche di lungo periodo che fanno da sfondo alla Conferenza di Copenaghen. La prima, ufficiale, è di contenere il surriscaldamento planetario sotto il tetto di 2 gradi celsius rispetto ai livelli di temperatura “preindustriali”. La seconda, ufficiosa ma anch’essa cruciale, consiste nel disinnescare la prevista «bomba climatica» senza paralizzare l’economia mondiale. La posta in gioco. Dietro il valzer degli annunci nazionali degli ultimi mesi, lo scenario di fondo della nascente «diplomazia ambientale» è un intreccio d’imperativi sociali e di esigenze economiche. Fra i primi, il diritto delle popolazioni di continuare a vivere nei propri territori minacciati dalla desertificazione o dall’innalzamento dei mari; o ancora, il diritto di evitare i rischi sanitari di climi estremi. Fra le esigenze del secondo tipo, innanzitutto quella di chiudere in modo “indolore” l’odierno ciclo tecnologico fondato sui combustibili fossili (petrolio, carbone) per passare a una «crescita verde».Il quadro scientifico. Secondo l’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change), l’organismo tecnico di riferimento posto sotto l’egida dell’Onu, sarebbe necessaria una prima riduzione compresa fra il 25% e il 40% delle emissioni di anidride carbonica entro il 2020 (rispetto ai valori del 1990). In valore assoluto, gli impegni finora annunciati dagli Stati sfociano invece ancora su un totale compreso fra il 12% e il 16%.I principali schieramenti. A Copenaghen, saranno presenti almeno 105 delegazioni con premier e capi di Stato, per un totale di oltre 20 mila delegati (a cui si aggiungeranno 30 mila attivisti sociali e 5 mila giornalisti). Costituiscono un gruppo relativamente omogeneo i 38 Paesi industrializzati che hanno già accettato, nel quadro del Protocollo di Kyoto, di ridurre entro il 2012 del 5,2% le emissioni globali di anidride carbonica rispetto ai valori del 1990. Gli Stati Uniti rappresentano un caso speciale, trattandosi del principale Paese sviluppato che non ha aderito a Kyoto. Le posizioni dei Paesi in via di sviluppo paiono più eterogenee. Come ha mostrato la recente riunione svoltasi a Pechino per elaborare una bozza di accordo alternativa a quella danese, Cina, India e Brasile si presenteranno a Copenaghen nella qualità di principali Paesi “emergenti”, cioè con rapide prospettive di crescita. Questo plotone ridotto, a cui paiono volersi aggiungere pure altri Paesi come Indonesia e Messico, ha esigenze diverse dal resto dei gruppi dei Paesi in via di sviluppo. Fra questi ultimi, si distinguono due sottogruppi da cui si pretenderanno «sforzi» molto più ridotti: i cosiddetti Paesi meno avanzati, soprattutto africani, e i piccoli Stati insulari, i primi minacciati da un eventuale innalzamento dei mari.I due nodi salienti. Alcune capitali chiedono regole relativamente omogenee per tutti i Paesi. Altre preferirebbero invece continuare a distinguere nettamente fra Paesi sviluppati e in via di sviluppo. Il principale asse di tensione è quello fra Washington e Pechino. La Cina, cercando il sostegno dell’intero mondo in via di sviluppo, difenderà in particolare la tesi di una chiara differenziazione. Diverse controversie suscita anche la prevista costituzione di un fondo mondiale per il clima. Da una parte, diversi Paesi si oppongono a una gestione affidata alla Banca mondiale. Dall’altra, i modi e i tempi del finanziamento hanno finora dato vita a ipotesi molto divergenti.Trasferimento tecnologico. È un grande tema di fondo dei negoziati, benché evocato di rado. I Paesi emergenti, a cominciare dalla Cina, sono alla ricerca innanzitutto di una cooperazione tecnologica mirata alla riduzione delle emissioni, molto più che di finanziamenti. Secondo molti analisti, il negoziato specifico su tali trasferimenti potrebbe giovare grandemente al successo di Copenaghen. I Paesi più minacciati dal cambiamento climatico, come il Bangladesh e soprattutto gli Stati insulari o aridi, chiedono anche trasferimenti tecnologici specifici per il necessario “adattamento”.