Congo. Il Paese in mezzo al caos l'Onu taglia i caschi blu
In mezzo ad una delle crisi più violente tra le tante subite negli ultimi anni dalla popolazione congolese, l’Onu ha deciso di ridimensionare la sua presenza nella Repubblica democratica del Congo. Un paradosso, si dirà, frutto però di due tendenze ben precise. Da un lato la politica voluta dalla nuova Amministrazione Usa, con il capo della Casa Bianca Donald Trump che ha come obiettivo la riduzione dell’impegno e delle spese per le missioni internazionali finanziate da Washington; dall’altro il pressing sempre più spinto da parte delle stesse autorità congolesi, secondo le quali «per gran parte delle sfide residuali relative alla sicurezza, la Monusco non è più la risposta».
Tradotto: nel nostro Paese decidiamo noi cosa fare per sedare le tensioni. Mani libere, insomma. Anche in quel Kasai che ha visto la morte di almeno 400 persone negli ultimi mesi dopo l’inizio della rivolta del gruppo Kamwina Nsapu e la successiva repressione governativa. Monusco è il nome della missione Onu per la stabilizzazione in Congo, la più ampia e la più costosa (1,2 miliardi di dollari l’anno) tra le missioni di peace-keeping delle Nazioni Unite, arrivata a compiere 18 anni di presenza nel Paese con modifiche importanti al suo assetto e ai suoi obiettivi apportate nel corso degli anni. Cinque giorni fa il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato all’unanimità una riduzione del 18 per cento del numero dei caschi blu inquadrati nella missione, che caleranno quindi da un massimo di 19.815 a 16.215. Il numero finale è frutto di un compromesso tra il tetto di 15mila uomini chiesto dagli Usa e i 17mila proposti dalla Francia. Il Consiglio ha inoltre rigettato la richiesta del segretario generale Onu, Antonio Guterres, che aveva consigliato di aggiungere 320 agenti di polizia extra alla missione: Washington ha imposto di mantenere l’attuale totale di 1.050 uomini. Di più: il Consiglio ha chiesto a Guterres di riferire entro la fine di settembre sull’even- tualità di ridurre ulteriormente la missione di peace-keeping dopo che si saranno svolte le elezioni, dopo che il presidente congolese Joseph Kabila avrà lasciato il potere e dopo che saranno stati compiuti progressi sostenibili nella riduzione della minaccia rappresentata dai gruppi armati presenti nel Paese.
Il Consiglio di sicurezza, insomma, si aspetta paradossalmente che la riduzione dei caschi blu nel Paese vada di pari passo con la stabilizzazione, fingendo di non vedere l’escalation nella quale il Congo è precipitato proprio negli ultimi mesi. Ovvero tensioni politiche, con lo stallo nei negoziati tra lo stesso Kabila e l’opposizione sulla condivisione del potere e sulle prossime elezioni, e tensioni armate, con la ribellione nel Kasai e in altre province duramente repressa dalle forze di sicurezza. Ne hanno fatto le spese anche due esperti delle Nazioni Unite, la svedese Zaida Catalan e l’americano Michael Sharp, insieme al loro interprete e a tre autisti, trucidati nelle scorse settimane mentre stavano indagando in Congo sulle violazioni dei diritti umani commesse sia dall’esercito congolese che dalle milizie. Violazioni che secondo il procuratore della Corte penale internazionale, Fatou Bensouda, «potrebbero costituire crimini di guerra». La stessa Monusco, dal 2013 autorizzata a compiere azioni offensive, negli anni è finita spesso in mezzo alle polemiche per non aver difeso a sufficienza i civili. Di più: non sono mancati i casi di denunce di uccisioni di civili, oltre che di stupri, sfruttamento della prostituzione e abusi ad opera di piccoli gruppi di caschi blu.
Per le autorità congolesi la Monusco è «uno Stato parallelo», ma per l’ambasciatore Usa all’Onu, Nikki Haley, la missione sta «aiutando un governo corrotto, che sta avendo un comportamento predatorio contro la sua stessa gente». La credibilità di una missione che già non gode di ampia fiducia ne esce palesemente indebolita in un periodo peraltro molto caldo per il Paese. L’accordo tra Kabila e l’opposizione per un governo di unità e per nuove elezioni da tenersi entro fine anno è in fase di stallo, mentre nel Kasai sono già 23 le fosse comuni individuate. Lunedì ha avuto largo seguito l’appello allo sciopero generale lanciato dall’opposizione. L’hanno chiamata la protesta delle «città morte», e in effetti per un giorno un tetro silenzio ha pervaso sia la capitale Kinshasa che le altre principali città del Paese: chiusi i negozi e i mercati, fermi i trasporti, molta gente non si è recata al lavoro o a scuola e le strade sono apparse per lo più deserte. Per l’opposizione si è trattato di un successo, in vista di una lotta che si preannuncia però ancora lunga e complicata.