Ucraina. Con l’ambulanza sul fronte del Donbass: «Qui non c'è il domani, solo l’adesso»
Vigili del fuoco e paramedici soccorrono i feriti dopo un bombardamento nei pressi della città di Kramatorsk, nell’ovest dell’Ucraina
Una cupola di bende avvolge il cranio dove sono conficcate profonde le schegge di mortaio, scende fino al naso e si gonfia di garza nell’orbita sinistra, svuotata dell’occhio. Una barba brizzolata di pochi giorni circonda la bocca incrostata di sangue, inerte, dove s’immergono i tubi. Il ferro è penetrato anche nella spalla e nel braccio. L’esplosione ha causato un’emorragia al polmone e lacerazioni alle mani. Il corpo glabro, latteo, è coperto solo sul ventre da un lembo di lenzuolo.
Sono trascorse tre ore dall’inizio del personale orrore del soldato Andreij, e l’ambulanza buca la notte del Donbass, velocità e luce piegano gli alberi a un’intricata galleria di fronde. «Sopravviverà», afferma sicuro Yurij, anestesista a capo dell’unità Moas che ha raccolto il ferito dal centro di prima stabilizzazione dell’esercito ucraino, un edificio immerso nella campagna buia, dove cantano i grilli e le bombe distanti. Molti anni d’esperienza fra le emergenze sanitarie degli Stati che si affacciano sul golfo di Guinea, poi la guerra e il richiamo della patria. Con lui Artem, giovane paramedico, e Taras, le nocche tese sul volante, chino sull’asfalto in corsa.
Saranno due ore di viaggio per l’ospedale civile più vicino, dove una squadra medica nel frattempo si prepara all’intervento. Altre due ambulanze percorrono la notte. Un altro volto massacrato dall’artiglieria russa, un collo spezzato in un incidente stradale. Sono partite dal centro operativo, spartano edificio dove dieci unità dormono, attendono le chiamate, consegnano, riprendono posto nella turnazione. È un ciclo incessante che estrae da uomini e donne energie e competenze insospettabili, che sostanzia una stoica relazione con l’oscenità del dolore.
Cinquanta ambulanze, 150 fra dottori, paramedici, infermieri e autisti lavorano per Moas, che ha cominciato le sue attività nel Mediterraneo con una nave capace nel triennio 2014-17 di salvare e soccorrere più di 40.000 migranti. La Ong creata – dall’italo-americano Christopher Catrambone – e dalla moglie Regina si è poi spostata in Myanmar, a sostegno dei profughi Rohingya. Ventimila i trasporti effettuati dall’inizio del conflitto nel cuore dell’Europa. Numero che coincide quasi con le vite salvate. L’efficienza dei terzetti, tutti composti da ucraini, e la sofisticata tecnologia delle ambulanze, erano e restano inaccessibili per l’esercito di Kiev.
Per le strade del fronte orientale sciamano i mezzi militari, passano lungo gli sterminati campi di girasole, la terra a maggese, i villaggi distrutti. “È una situazione difficile, uno stallo. I russi hanno armi e uomini inesauribili, ma commettono errori. Noi li sfruttiamo. Ma non possiamo vincere con armi vecchie di mezzo secolo», dice Misha, capitano dell’antiaerea appena tornato fra le ciminiere di Kramatorsk dalla licenza.
Ai bombardamenti preparatori seguono le incursioni dei mezzi blindati, gli assalti della fanteria per i brevi salienti e i boschi, spazi minuziosamente minati e protetti da diverse linee di trinceramento. Giovedì la ministra della Difesa ucraina Hanna Maliar ha affermato che le operazioni di accerchiamento a Bakhmut ottengono buoni risultati, portando l’esercito alle porte della città, o quel che ne avanza. Gli strateghi russi hanno risposto portando l’offensiva a nord. Kiev si è trovata a dover ordinare l’evacuazione a 37 villaggi nel distretto di Kupyansk.
La strada per il fronte è un disastro di buche che l’estate protegge con il fitto verde delle foglie. La carcassa di un pulmino dell’esercito giace contorta in un prato. Le esplosioni si fanno più grevi, accompagnate dalle raffiche delle mitragliatrici pesanti, da spari isolati. È la che si combatte, oltre i lunghi filari che sormontano la collina distesa nell’erba, un manto a coprire ciò che d’inverno è un desolato paesaggio di crateri.
«Abbiamo stabilizzato fino a 200 pazienti al giorno durante la grande battaglia dei primi mesi dell’anno. Perfino un soldato con ustioni al cento per cento del corpo. Le fiamme avevano bruciato le vie respiratorie. È morto in ospedale, certe ferite sono incompatibili con la vita», racconta il dottor Marchenko, anch’egli richiamato a casa dall’insostenibile offesa dell’invasione. Il centro d’emergenza di prima linea, dove Moas supporta anche nelle primissime fasi, è ospitato dalla vecchia scuola elementare del villaggio. Sui muri i pastelli convivono con barelle e fili di flebo, sulle porte danno accesso a sale d’intervento che vivono di un sacro ordine frugale. Intorno all’edificio i segni dell’attenzione russa: la voragine scavata da un missile Grad a dieci metri dall’entrata, il cimitero con le lapidi frantumate, il vecchio municipio dal tetto sfondato.
«Il fronte oggi è calmo. A volte tutto trema. Qui si apprende la calma, la sospensione di ogni emozione. Non esiste il domani, solo l’adesso. Dobbiamo riprenderci tutti i confini», dice con un fremito di rabbia Marchenko. Comincia a piovere, arriva un’ambulanza dell’esercito. I guanti di lattice si tendono sulle mani. Ma è solo una rasoiata di pallottola sulla schiena di un soldato attempato. Un sorriso sprezzante stropiccia il volto del chirurgo.