Arabia Saudita. Con i soldi non si comprano anche i diritti umani
Il rapporto di Human Rights Watch sulle stragi di migranti etiopi da parte della guardia di frontiera saudita ai confini con lo Yemen aggiunge un nuovo capitolo alla galleria degli orrori delle violazioni dei diritti umani nelle zone di frontiera. Anche se siamo abituati a pensare che i flussi di migranti e profughi siano diretti soltanto verso il Nord del mondo, in realtà il fenomeno è sempre più globale. Dei circa 281 milioni di immigrati internazionali a livello planetario, almeno un terzo si sposta sulla direttrice Sud-Sud, o dal Sud del mondo verso un Paese di livello intermedio. Nella fattispecie, le migrazioni dall’Etiopia verso l’Arabia Saudita, attraversando lo Yemen, sono in atto da tempo. I conflitti interni che dilaniano l’ex-colonia italiana, in Tigrai e in altre regioni, hanno aggiunto flussi di profughi di guerra agli immigrati mossi dalla ricerca di opportunità di lavoro nell’economia informale saudita: in gran parte donne che s’inseriscono nel sempre attrattivo mercato del lavoro domestico, malgrado violenze e vessazioni.
Dal canto suo l’Arabia Saudita di Mohammed bin Salman sta cercando di migliorare la sua immagine internazionale, di diversificare la sua economia prigioniera della rendita petrolifera e di accrescere il suo ruolo nello scacchiere geo-politico mondiale. Al proprio interno però la modernizzazione simboleggiata dai grattacieli scintillanti si sovrappone a rapporti sociali pre-moderni e ingiustizie insopportabili, di cui le prime vittime sono proprio gli immigrati. Questi forniscono gran parte della forza lavoro del paese, tanto da rappresentare il 41,6% della popolazione residente. A parte le componenti qualificate, come il personale medico e i tecnici di cui il regno saudita manca, sono trattati come un’umanità di serie B, con scarsissimi diritti, impossibilità di ricongiungere le famiglie, rischi permanenti di espulsione.
A tutto questo si aggiunge ora l’impiego indiscriminato della violenza alla frontiera. Narrative tossiche che ben conosciamo, come la sacralizzazione dei confini di Stato, l’equiparazione dei profughi a invasori armati da respingere, la sovrapposizione tra sicurezza interna e chiusura dei confini esterni, si sono diffuse dall’Occidente al resto del mondo. Sono arrivate anche dove i presidi del rispetto dei diritti umani, dalla libera stampa, alle Ong, a una magistratura indipendente, sono troppo fragili o inconsistenti.
Si potrebbe auspicare ora un decisa condanna internazionale. Ma abbiamo già dovuto constatare, come nel caso Khashoggi, che la forza economica del regno saudita è tale da piegare a suo favore la bilancia delle relazioni intergovernative. Riad è riuscita fin qui a sfuggire alle conseguenze delle sue ripetute violazioni dei diritti umani. Dopo timide condanne, ritorna sempre il “business as usual”. Eppure, dopo un fatto come quello denunciato da Human Rights Watch non dobbiamo smettere di domandare ai nostri governi di condannare e isolare il regime saudita, finché non dimostrerà di prendere sul serio il rispetto dei diritti umani, al proprio interno come sulle sue frontiere.
Proprio in questi giorni una dichiarazione dei missionari scalabriniani sulle politiche migratorie si concludeva con queste parole: «Continuare a corteggiare le dittature africane e i Paesi ultranazionalisti europei non è certo la strada più efficace per intraprendere scelte condivise, solidali e rispettose dei diritti umani». Ora dovremmo aggiungere alla lista dei presunti “alleati” da cui distanziarci gli straricchi governanti sauditi.