L'analisi. Il tentato golpe in Giordania, territorio chiave che fa gola a troppi
Il tentativo di scalzare dal trono re Abdallah II di Giordania non è soltanto una resa dei conti fra fratellastri e avverse fazioni. Il regno hashemita è un boccone appetibile per quanti, nel già tormentato mosaico mediorientale, puntano a frammentarne ogni angolo per infiltrarsi tra le pieghe di tessuti politici e sociali impoveriti e sfilacciati. È già successo con Iraq, Siria, Yemen. Le medesime forze alitano sul collo del Libano. E ora, a quanto pare, sono pronte ad approfittare di una presunta distrazione della comunità internazionale per colpire anche in Giordania, appunto, dove la pressione di milioni di rifugiati – palestinesi, iracheni e siriani – e il sopravvenire di una pandemia hanno messo a dura prova la tenuta degli equilibri sociali, uno sviluppo economico costante ma lento, l’introduzione di riforme politiche non abbastanza coraggiose. Le prime ricostruzioni giornalistiche riguardanti il «coinvolgimento di un’intelligence straniera», attribuiscono al Regno saudita la volontà di insediare, al posto del moderato e filo-occidentale Abdallah, un sovrano più affine ai sultani del Golfo. Il prescelto potrebbe essere il fratellastro Hamza oppure altre figure del casato hashemita, propense a dirottare la politica del dialogo adottata negli ultimi vent’anni verso approcci più muscolari. Anche gli Emirati arabi sarebbero interesse a questo.
La Giordania, attenzione, non è un’oasi di pacifismo: il piccolo regno ospita basi militari Usa, rivelatesi preziose nelle operazioni di contrasto al Daesh. Alla bisogna, caccia militari americani muovono da lì verso Siria, Iraq, o le acque internazionali al largo del Corno d’Africa, di volta in volta contro jihadisti sunniti, milizie iraniane, pirati somali. Di più, sul confine orientale del regno di Abdallah II si addestrano unità speciali di svariati Paesi occidentali. E questo perché, mentre il Nordafrica e il Medio Oriente prendevano fuoco nell’ultimo decennio, Amman rimaneva in piedi. Probabilmente per la capacità dei sovrani di stare dalla parte giusta, appunto: vicini a Unione Europea e Stati Uniti, ma con un piede saldo nella Lega araba.
E poi con atteggiamento critico nei confronti della destra israeliana di Benjamin Netanyahu, ma senza mettere in discussione la scelta di deporre le armi, nel 1994. O forse perché la Giordania ha fatto delle disgrazie altrui la propria fortuna: gli attori protagonisti della regione – Arabia Saudita, Egitto, Turchia, Iran – si sono finora scannati per Libia, Siria, Iraq, Yemen. Il territorio giordano ha tutte le caratteristiche per finire nel mirino: ha uno strategico sbocco sul mare, quello Rosso; discrete riserve di idrocarburi e si trova sul percorso di gasdotti e oleodotti fra Asia e Mediterraneo; e potrebbe pure essere “sacrificato” per dare vita a uno Stato palestinese. O diventare una provincia siriana, sotto influenza di Riad e Abu Dhabi, se gli alleati occidentali non vigileranno a sufficienza.