Il tour. La scelta di Rana e Eszter: «L'unica parte è quella della convivenza»
Rana Salman, a sinistra, e Estzer Koranyi
«Pro-israeliani, pro-palestinesi che senso ha? Divisioni, fratture, polarizzazione non aiutano nessuna delle due parti. Se possiamo trarre una lezione dalla tragedia del 7 ottobre è che la guerra non ha una soluzione militare. Proseguire su questa strada non fa che innalzare il livello dello scontro e estendere il conflitto. La deflagrazione rischia di dilaniare non solo la regione. Se volete prendere una parte, prendete quella della giustizia, del dialogo, della convivenza. Questo si può aiutarci. Noi, donne e uomini che vivono fra il Giordano e il Mare, dobbiamo trovare un modo per vivere insieme con dignità ed uguaglianza. Il sostegno della comunità internazionale può aiutarci». Con questo messaggio, Rana Salman e Eszter Koranyi stanno percorrendo l’Italia, dove resteranno fino al 21 novembre e porteranno la propria testimonianza da Milano a Napoli. La parola e i gesti disarmati sono gli strumenti bellici scelti da queste due combattenti anomale. “Combattenti per la pace”, si autodefiniscono. "Combatants for peace" è il nome dell’associazione nata durante la Seconda intifada da una serie di incontri segreti a Betlemme tra miliziani palestinesi e soldati israeliani decisi a costruire un presente e un futuro possibili nell’unico modo realistico: insieme. Nel tempo, l’organizzazione si è aperta anche a chi non ha un “passato armato” ma vuole unirsi al combattimento per la pace, come racconta Daniela Bezzi in “Combattenti per la pace” (Multimage). Hanno finito, così, per arruolarsi persone come Eszter e Rana, le cui biografie probabilmente non si sarebbero intrecciate senza "Combatants for peace". La prima è nata e cresciuta in Ungheria in una famiglia di ebrei sopravvissuti alla Shoah. Israele l’ha conosciuta a 12 anni quando è venuta a trovare i parenti. “Ma per me, all’epoca, ero solo il rifugio sicuro per gli ebrei. Sapevo poco o nulla del conflitto. L’ho scoperto anni dopo dalla mia coinquilina durante un periodo di studio a Napoli. Tornata in Israele, dunque, nell’ambito di vari progetti, ha deciso di toccare con mano l’altra metà della storia, iniziando a conoscere la Cisgiordania. «Ancora non pensavo di trasferirmi definitivamente. L’ho deciso quando mi sono innamorata del mio attuale marito. E quando l’ho fatto mi sono detta: se devi stare qui, cerca di essere parte della soluzione non del problema. E’ quanto sto provando a fare». Rana, invece, vive da sempre a Betlemme. Fin dall’infanzia, la guerra è parte della sua quotidianità. «Anche se quando ero bambina non c’era il muro, i check-point, i blocchi. Poi, dopo il 1993, le restrizioni si sono fatte via via più opprimenti. Conoscere un israeliano che non fosse un soldato o un colono è diventato quasi impossibile. Non mi sono, però, mai voluta rassegnare alla separazione. Nutrivo il forte desiderio di sapere com’era “l’altra parte”. L’ho fatto, a lungo, lavorando nel turismo alternativo: cercavo di far sì che i miei itinerari includessero anche “le pietre vive” – le storie, le persone – oltre ai monumenti». A Combatants for peace entrambe hanno iniziato come attiviste. Ora sono le direttrici dell’organizzazione rispettivamente in Israele e Palestina. Come tali si sono trovate a guidare l’organizzazione nei suoi tredici mesi più difficili. “Di certo è stato ed è un periodo tragico. Eppure, dal 7 ottobre, abbiamo registrato un maggiore interesse negli israeliani di sapere di più sui palestinesi”, afferma Eszter. «Un esempio. A marzo facciamo in genere un programma di formazione – aggiunge Rana -. Di norma si iscrivono in 15 o 20. L’ultima volta abbiamo avuto 93 richieste». «Quando dicono che la gente non crede alla pace o non la vuole, mi viene in mente “1984”: come nel romanzo di Orwell, i politici hanno rimosso questa parola dal dibattito pubblico – conclude Eszter -. Le persone, spesso, sono contrarie alla pace perché non sanno più che cosa sia. Ora più che mai dobbiamo combattere per riportare la pace al centro».