L'intervento. Colpo di Stato in Myanmar, una democrazia in trappola
Colpo di Stato in Myanmar; la folla acclama Aung San Suu Kyi
Caro direttore,
ancora una volta la Birmania torna sotto il tallone dei militari che con un colpo di stato vogliono soffocare la transizione democratica guidata da circa un decennio da Aung San Suu Kyi. Sembra essere il destino di questo martoriato Paese non riuscire a liberarsi dalla liberticida tutela delle divise. Vero è che nella storia birmana il ruolo dei militari è stato sempre centrale, fin dalla lotta contro l’occupazione giapponese e, poi, per l’indipendenza dalla dominazione britannica guidata dal generale Aung San, padre di Aung San Suu Kyi, ucciso alla vigilia dell’indipendenza da un tentativo – allora fallito – di golpe militare. Dopo un primo decennio di fragile vita democratica, all’inizio degli anni 60 del Novecento la casta militare prese il sopravvento e per oltre mezzo secolo il Paese è stato gestito con mano ferrea e ferocia repressiva dal “Tatmadaw”, le forze armate birmane, che hanno usato come “giustificazione” del loro potere dittatoriale l’esigenza di mantenere l’unità del Paese percorso da spinte autonomistiche delle molte comunità etniche che compongono l’Unione del Myanmar, il nome dato dai generali alla Birmania. Nonostante la repressione, un’opposizione democratica ha continuato ad agire, ma ogni volta che essa si è manifestata la reazione dei militari non si fatta attendere. È accaduto nel biennio 1988-90 quando un vasto movimento di protesta guidato dagli studenti portò a libere elezioni vinte dalla Lega Nazionale per la Democrazia guidata da Suu Kyi. Vittoria soffocata nel sangue dal ritorno dei militari che avviarono una feroce repressione.
La stessa Suu Kyi venne rinchiusa in totale isolamento nella sua casa per 19 anni. È accaduto nuovamente nel 2007 quando il malcontento popolare per il rialzo dei prezzi dei generi di prima necessità diede luogo a una protesta guidata dai monaci buddisti. Anche allora la repressione fu sanguinosa. E accade in queste ore con un golpe che tronca la transizione democratica avviata nel 2011-12 quando, sotto la pressione internazionale, i generali accantonarono gli esponenti più duri e corrotti del regime e accettarono l’apertura di una percorso che, nonostante pesanti condizionamenti (la Costituzione riserva ai militari del 25 per cento dei seggi parlamentari), vide nelle elezioni parziali del 2012 e poi nelle elezioni generali del 2015 un plebiscitario successo di Suu Kyi e del suo partito. Da lì prese le mosse una transizione che via via ha liberato tutti i prigionieri politici, abolito ogni forma di censura, adottato una legislazione democratica, aperto il Paese agli investimenti stranieri, concluso accordi di pacificazione e autonomia con le frazioni armate delle minoranze etniche. Una transizione che, nel tentativo di evitare ritorni reazionari, riconobbe ai militari importanti postazioni di governo: la Difesa, l’Ordine interno, la Tutela dell’unità del Paese. Postazioni che l’esercito non ha esitato a gestire brutalmente come nella repressione della minoranza musulmana dei Rohingya, utilizzata freddamente per mettere in difficoltà Suu Kyi di fronte al suo popolo e alla comunità internazionale. Nonostante ciò la transizione democratica è proseguita con forte consenso popolare, dimostrato dalle elezioni dello scorso novembre che hanno confermato una larga maggioranza a Suu Kyi e al suo partito. Un voto che ha spinto i militari a interrompere una transizione che non hanno mai davvero accettato. La Birmania viene così risospinta nel buio della dittatura: è responsabilità morale e politica della comunità internazionale e di ogni coscienza democratica non lasciare solo quel martoriato Paese nella sua lotta per la democrazia e la libertà.
Presidente della Commissione Esteri della Camera
già Inviato speciale della Ue per la Birmania (2007-11)