Dentro l'Amazzonia / 1. Colombia, neanche la pace estirpa la coca
La Güisía. Nella Valle del Guamuez, al confine ecuadoriano nell’area amazzonica, otto contadini su dieci lavorano nei campi di coca
Questa inchiesta, a puntate, racconta alcune «frontiere calde» dell’America Latina. Arroventate dal business delle materie prime, legali e illegali. La prima è dedicata Putumayo, al centro dei 586 chilometri a cavallo tra Colombia e Ecuador. Una delle enclave strategiche e, per questo, insanguinata dalla lotta di potere fra i differenti gruppi armati che, data la latitanza dello Stato, dettano legge. Ad attirarli, la coca, che là cresce in abbondanza.
«Lo so che non una cosa buona. Ma non ho altra scelta. Non ho terra, affitto mezzo ettaro da un amico ed è l’unica cosa che mi lascia coltivare. Anche lui non se la passa bene e la frutta non si vende… Voglio che mia figlia finisca l’università e solo così posso guadagnare qualcosa». Alle spalle di Andrés (tutti i nomi sono di fantasia), irrompe vigorosa la selva. Un labirinto di differenti toni di verde: scure e intense le foglie delle palme, brillanti e spugnose quelle degli ananas, chiarissime quelle del cacao. È difficile dipanare l’intrico cromatico di specie. La terra in Putumayo, nell’Amazzonia colombiana, a ridosso della frontiera con l’Ecuador, è generosa. Alberi da frutto e piante alimentari sono abbondanti.
Non sono questi, però, a garantire il sostentamento di Andrés e di altre decine di migliaia di contadini della regione. L’economia putumayense ruota intorno a una pianta “importata” una quarantina d’anni fa dal vicino dipartimento del Cauca. «La vuole vedere? Gliela mostro», afferma l’agricoltore. Non è necessario camminare a lungo nella foresta perché la vegetazione si apra in una distesa ordinata di arbusti alti poco più di un metro, dalle foglie larghe e allungate. Disposti l’uno accanto all’altro, in fila, si susseguono a perdita d’occhio.
È una tipica «coquera», un campo di coca. La Valle del Guamuez ne è piena: otto contadini su dieci ci lavorano. Come prima della pace tra il governo e le Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia (Farc), firmata il 24 novembre 2016. Anzi, nel 2017, l’Ufficio antidroga Onu (Unodc) ha registrato un incremento record: l’estensione delle piantagioni di coca è cresciuta del 17 per cento, passando da 146mila e 171mila ettari. Quasi trentamila ettari sono concentrati in Putumayo, il secondo dipartimento “cocalero” dopo Nariño. L’aumento ha allarmato la comunità internazionale, Stati Uniti in testa. Tanto che alcuni si sono scagliati contro il processo negoziale con cui si è messo fine a oltre mezzo secolo di guerra. Ma la coca è precedente alle Farc in Putumayo. Semmai è stata quest’ultima – arrivata quasi per caso alla fine degli anni Settanta – ad attirare come una calamita i vari gruppi armati protagonisti del pluridecennale conflitto colombiano. Prima, i ribelli del M19 e dell’Ejercito popular de liberación (Epl), poi Los Macetos, nucleo di paramilitari anti-guerriglia creati dal narco-boss Gonzalo Rodríguez Gacha, braccio destro di Pablo Escobar. Quando sono arrivate le Farc, le piantagioni crescevano rigogliose. L’organizzazione imponeva una “tassa” agli agricoltori in base al numero di piante.
«I gruppi non compravano direttamente, impiegavano intermediari. Ma sapevamo che dietro c’erano le Farc o i paramiliari, a seconda della zona. Si erano divisi la Valle in aree di influenza», spiega Alejandro, un ex produttore. La smobilitazione dei guerriglieri, in seguito all’accordo del 2016, ha lasciato un “vuoto”. Per colmarlo, il trattato di pace propone, al punto 4, una politica agraria integrale. Con la creazione di alternative per i contadini e la costruzione di infrastrutture – del tutto assenti – per garantire l’accesso al mercato dei prodotti legali. È la garanzia di un «acquirente a domicilio» ad alimentare il boom della coca. Dalle fumigazioni aeree con il glifosato – abbandonate nel 2015 per il rischio sulla salute e l’ambiente –, inoltre, si è passati all’eradicazione manuale. Forzata e affidata all’esercito che finora ha distrutto 5.374 ettari. O volontaria, mediante un piano di sostegno ai cocaleros o coqueros. Al programma – lanciato il 27 maggio 2017 –, hanno aderito oltre 77mila famiglie colombiane, per un totale di più di 30mila ettari sradicati. Meno di 5mila persone, però, hanno ricevuto i primi pagamenti. Mentre i piani di sviluppo agrario stentano a partire. Il nuovo presidente, Iván Duque, poi, ha ventilato l’idea di interrompere l’iniziativa per mancanza di fondi e tornare alle “vecchie” fumigazioni.
«Per l’ennesima volta, lo Stato non ha mantenuto le promesse. Qua in Putumayo, ci siamo iscritti in 23.500 e quasi nessuno ha ricevuto niente», afferma Isabelita. Di delusione e malcontento, nella Valle del Guamuez approfittano quanti, fra gli ex combattenti scontenti della pace hanno imbracciato di nuovo le armi. Non solo i dissidenti delle Farc, riuniti nel fronte 48. In Putumayo operano anche gli eredi dei vecchi paramilitari, come il Clan del Golfo e Las Aguilas Negras. Accantonate le differenze ideologiche, spesso gli ex nemici lavorano insieme per accaparrarsi il business della coca. E insieme “premono” perché i contadini continuino a coltivarla. Da gennaio, sono già nove gli attivisti putumayensi uccisi: tre si battevano per la sostituzione. Altri quattro hanno sono stati minacciati.
«Hanno detto che se partecipavamo al programma avremmo firmato la nostra condanna a morte. Così molti hanno lasciato », aggiunge Isabelita. Sulla strada – rigorosamente non asfaltata – che da La Dorada conduce a La Güisía, le coltivazioni arrivano quasi ai bordi della carreggiata. Solo nel primo tratto sono mal coperte da un sottile velo di piante di cacao. Chilometro dopo chilometro, la coca si fa più sfacciata. Imboccando un qualunque sentiero laterale, si può osservare in presa diretta il primo anello della catena del narcotraffico mondiale. Un business da 652 miliardi di dollari scrive l’ultima analisi di Global finance integrity. Eppure un terzo della popolazione del Putumayo è povera e i cocaleros a malapena “galleggiano” con un’entrata media di 700 dollari ogni tre mesi. Le loro casette di legno e lamiera ne sono la dimostrazione. Da queste parti sono tutti piccoli produttori con una “coquera” difficilmente più grande di un ettaro.
Vi crescono circa 200 piante da cui si ottengono appena quattro chili di pasta base, il grado iniziale di lavorazione per arrivare alla cocaina. La gente della Valle non la vedrà mai. La “polvere dello sballo” è roba da gringos, come chiamano non solo i cittadini Usa ma qualunque persona del Nord del mondo. Là, dove il suo valore si moltiplica raggiungendo i 50 euro al grammo, fanno gli affari i narcos. «Vuole dire al chilo», dice incredulo Fabián, appena uscito dalla coquera insieme a tre compagni. Sono tutti “raspachines”, raccoglitori, il grado più basso della manovalanza cocalera. Braccianti incaricati di irrorare le piante con il fertilizzante per l’equivalente di 12 dollari al giorno. E di strappare le foglie a mani nude, appena “pronte”.
«Quando ho iniziato, da bambino, mi venivano le piaghe. Poi ti abitui», aggiunge Fabián, mostrando le dita piene di cicatrici. Per la raccolta si comincia alle 3 di mattina e di va avanti ad oltranza ma si guadagna di più: l’equivalente di 30 dollari per 144 chili di foglie. Fabián e compagni – in canottiera e pantaloncini – fanno anche la “pasta” nel capanno-laboratorio che spunta in mezzo al campo. Là, grazie a litri di acqua, carbonato di sodio e cherosene, la pianta sacra degli indigeni diventa droga. «Gli occhi mi bruciano, la pelle si irrita. Almeno, però, mio figlio mangia tutti i giorni. Ma lei mi spieghi: che cos’ha di speciale questa roba che vi piace tanto?».
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