È il volto più tragico della guerra. Accomuna il nord al sud del mondo. Ovunque si combatta, lo si fa ormai nei centri urbani. Nel campo di battaglia più disumano e vile che si possa ipotizzare. A Falluja come a Sirte, a Sarajevo come a Grozny, non diversamente da Mogadiscio, Bassora, Vukovar o Hué ci sono cicatrici imperiture. Forse Stalingrado non c’era bastata. Eppure sono tutti nomi passati alla storia militare per gli esiti tragicamente violenti e crudeli. Fermiamoci un attimo. Che cos’è il conflitto siriano se non un’escalation estenuante di combattimenti nei centri abitati e per i centri abitati? Gli assedi di Homs e di Aleppo sono la tomba stessa dell’idea di umanità. A che cosa sono serviti gli insegnamenti di Sun Tzu sull’Arte della guerra? Il grande stratega cinese del 550 circa (a.C.) sconsigliava ai suoi uomini di «assediare le città». Pensava fosse la peggiore delle politiche. Forse è solo cambiato lo scenario. E le città sono i nuovi obiettivi politicostrategici. Legittimi o meno. Ma sta accadendo sistematicamente. Almeno dagli anni ’80. E il trend sembra inarrestabile, con uno scontro titanico tra forme di combattimento futuristiche e tattiche ancestrali. Lo dicono molti esperti, David Kilckullen su tutti. Lo conferma anche una nota della Direzione per gli affari strategici, a Parigi: «Gli scenari urbani rimarranno zone prioritarie di scontro». Perché sono nodi di comunicazione, centri economici, e poli di sviluppo e di affari per l’intero circondario. D’altronde l’urbanizzazione delle masse è un fenomeno planetario. Nel 2016, il 75% della popolazione mondiale vive in città, spesso costiere. Una percentuale destinata a salire velocemente, e a condizionare i campi di battaglia futuri. Nella maggior parte dei conflitti, perdere o tenere una città decide l’esito finale dello scontro. Se si amplia lo scenario si capisce che anche le guerre in Ucraina, in Yemen e in Libia si sono giocate intorno ai centri urbani. Quello che avevamo considerato a lungo un’eccezione, quasi un’aberrazione – isolare e affamare una città –, è diventato la norma. Perfino il cinema hollywoodiano sembra essersi assuefatto. Sforna film che abbinano sequenze d’intervento classiche a scene di combattimento urbano, sempre più precise e dettagliate, perfino nel tiro delle armi leggere. Il Pentagono spesso approva. Anzi, il celebre Black Hawk Down ha goduto di una sinergia completa con l’Us Army, che ha messo a disposizione otto velivoli, cento soldati e perfino equipaggi del 160° reggimento aereo per le operazioni speciali. Gli assedi sono ormai anche aerei. A Falluja c’erano 13 droni in volo permanente. Nulla deve sfuggire. Torna in auge l’arte della contro-mobilità e dell’assedio terrestre, proliferano nuovi mezzi del genio e gli eserciti si addestrano ormai comunemente alla guerra in città, in centri ad hoc ultra-realistici, estesi per decine di chilometri quadrati. Vi ritrovi i dettagli delle casbah, con i vicoli stretti e gli edifici caratteristici. E non fanno che tornare alla mente i combattimenti di Algeri, fatali ai francesi. Gli interventi americani a Beirut (1983), Grenada (1983), Panama (1989) e Mogadiscio (1993) avevano già suggerito ai comandi di correggere il tiro e di correre ai ripari. Con un obiettivo ben preciso: prepararsi metodicamente alle azioni militari in città e a tutto il corollario che le accompagna, fatto di imboscate, reti di tunnel e cunicoli, palazzi dominanti, cecchini, folle inconsapevoli e mercati innocenti. In città, si assottigliano i vantaggi tecnologici. Ecco perché gli irregolari le scelgono come teatri d’azione elettivi. Qui saltano i comandi accentrati. Si combatte quasi corpo a corpo. L’incedere è lento. Non c’è un fronte. Le trappole esplosive sono ovunque, dissimulate perfino nelle ambulanze. Si lotta per il dominio informativo. E il favore dei civili è spesso il discrimine fra la vittoria e la sconfitta. Il nemico è sfuggente, difficilmente identificabile. Perché a fronteggiarsi non sono due eserciti regolari, ma fazioni terroristiche, jihadisti, ribelli e lealisti. Distinguere fra l’amico e il nemico, fra chi combatte e chi cerca solo di sopravvivere è spesso un dilemma. I regolari non amano la guerra urbana. La città è soffocante, chiusa. Ha strade e vicoli. Spesso la circondano alture. Ogni edificio è come un “mini fort Alamo” da assaltare, al prezzo di alte perdite e fatica delle unità. Certo ci sono i mezzi blindati. Ma da soli non bastano. E per risparmiare gli uomini si eccede talvolta con l’artiglieria. Per i civili è la fine. Nel 1995, a Grozny, è stato un massacro. Sono morti 30mila innocenti, falciati dai mortai e dei lanciarazzi russi. Bombardamenti ciechi, che hanno raso al suolo la città. Non tutti gli eserciti hanno in linea munizioni precise, che costano ancora carissime e sono in itinere. Gli obici tradizionali sono qualcosa di aberrante: alla gittata massima possono sbagliare di 76-136 metri, anni luce dal bersaglio desiderato. Non appena possono, i civili fuggono. Diceva poco tempo fa un operatore di “Medici del Mondo”: «Sapete che cosa è cambiato negli ultimi trent’anni? Prima distribuivamo aiuti umanitari nelle campagne africane. Oggi lavoriamo prevalentemente in città e nei campi profughi adiacenti». Quasi tutti i rifugiati delle guerre odierne sono sfollati da città sotto assedio. Riparano in altre città. È il nuovo dramma della guerra contemporanea. Odioso. Ma tristemente vero. Proteggerli è il minimo che si possa fare. E in questa direzione sembrano muoversi la Casa Bianca e il presidente Obama. Con un ordine esecutivo emanato il primo luglio e diretto al Pentagono, è stata chiesta ai militari maggiore protezione dei civili in guerra. Forse non è ancora abbastanza.