Venti ulivi, per commemorare quattro attivisti morti per difendere i diritti dei palestinesi. Venti ulivi, accanto a quattro lapidi per ricordare Rachel Corrie, Vittorio Arrigoni, Tom Hurndall e Angelo Frammartino da ieri nel “Freedon garden” di al-Tuwani. Fino a un anno fa la cresta della collina, non lontana da Hebron, era una «zona militare chiusa», ossia requisita e posta sotto il controllo dell’esercito israeliano. Proprio le azioni non violente, e il monitoraggio di organizzazioni internazionali come Operazione Colomba, hanno permesso il recupero del territorio.È il silenzioso, ma tenace lavoro del “Comitato popolare” nelle colline a sud di Hebron che ieri ha organizzato la manifestazione mentre erano in corso in altri villaggi “azioni di conoscenza” fra i palestinesi e gruppi di ebrei come “Taayush” e “Rabbini per i diritti umani”. È la risposta non violenta alla occupazione delle terre da parte dei coloni israeliani in Cisgiordania. Un coordinamento di azioni dimostrative e di interposizione, iniziato nei villaggi rurali più dimenticati a Sud di Hebron, in quella che si chiama, nel gergo degli internazionali, area C: vale a dire sotto il controllo israeliano. Villaggi rurali, colline tradizionalmente destinate alla pastorizia, in cui coloni israeliani si sono insediati da anni sotto la protezione dell’esercito. Un “land grabbing” in violazione del diritto internazionale, fatto con continue violenze e intimidazioni sulle popolazioni locali e sulle loro proprietà. Da qui la decisione del Comitato popolare di rispondere attraverso l’azione non violenta coinvolgendo attivisti internazionali. L’intuizione fondamentale, spiegano all’Operazione Colomba della Giovanni XXIII, è quella di vivere a fianco della popolazione che subisce le violenze dei conflitti «condividendo la precarietà, le paure e le sofferenze che ogni guerra genera». La presenza di personale internazionale «fa diminuire la violenza e serve a monitorare situazioni a rischio» fornendo alle autorità internazionali documentazione.A una manciata di chilometri dal “Freedom garden” di al-Tuwani il villaggio di Susiya, sempre più spesso meta di altre azioni non violente: all’inizio di maggio l’esercito israeliano ha emesso un ordine di demolizione. È solo l’ultimo atto di un contenzioso più che ventennale: la presenza dei resti di una antica sinagoga ha portato negli anni ’80 a un insediamento ebraico che ha costretto gli abitanti del villaggio a spostarsi nella zona agricola. La richiesta di un piano regolatore da parte dei palestinesi ha ottenuto, per risposta, l’ordine di demolizione. La minaccia, nonostante le proteste anche di gruppi israeliani come “Ebrei per i diritti umani”, è quello di una evacuazione del villaggio e di una deportazione degli abitanti nella cosiddetta «zona A». «Se avvenisse – commenta da Hebron un volontario della Papa Giovanni – sarebbe il primo caso del genere da anni e dimostrebbe chiaramente qual è l’obiettivo di chi sostiene i coloni». Il timore è quella di una deportazione forzata. L’alternativa, per chi vive sotto minaccia di occupazione straniera, è la demolizione delle case: l’ultimo caso è quello di Umm al-Kher, demolito quasi completamente lo scorso inverno.Per questo, anche ieri dopo la commemorazione dei quattro attivisti uccisi, i volontari della Papa Giovanni hanno accompagnato i pastori al pascolo, sfiorando postazioni militai e villaggi di coloni. Sotto monitoraggio pure, ogni giorno, l’ingresso a scuola dei bambini dalle campagne. Piccoli passi per costruire la speranza, a fianco di chi vive come un bersaglio.