L'attacco dell'Iran a Israele. Trecento droni/missili e cinque buone notizie (forse)
Il capo di Stato maggiore israeliano Herzi Halevi nella base aerea di Nevatim, nel sud di Israele, leggermente danneggiata da uno dei missili balistici lanciati dal regime iraniano
L’attacco iraniano di sabato scorso (300 tra droni e missili lanciati verso Israele) ha sensibilmente cambiato gli equilibri regionali in Medio Oriente e il premier israeliano Benjamin Netanyahu si ritrova con un “bottino di guerra” che non può disperdere. E di cui deve tener conto nella valutazione della risposta agli ayatollah. Questi i cinque punti a favore emersi.
1 - L’Iran non vuole l’escalation
Non è una novità ma un'importante conferma. La Repubblica islamica ha cercato e gestito tramite i suoi proxy - Hamas ed Hezbollah - la guerra che da sei mesi insanguina la regione. Si è sempre detto che il gruppo terrorista che controlla Gaza stesse preparando da tempo (con i finanziamenti e il supporto di Iran e Qatar) il massacro a cui abbiamo assistito il 7 ottobre, ma è di tutta evidenza che la scelta dei tempi è stata determinata dall’obiettivo di interrompere il processo di normalizzazione regionale che si stava compiendo con il riavvicinamento tra Israele ed Arabia Saudita nella cornice degli Accordi di Abramo: una “cintura sunnita” che ha come obiettivo l'isolamento dell’Iran, Paese canaglia, sciita, già sottoposto a pesanti sanzioni. Consapevole della sua fragilità interna, dovuta a un momento di passaggio, con la leadership declinante della Guida Suprema Ali Khamenei (84 anni) e una forte opposizione politica - costretta a lavorare nell’ombra ma tenace, che chiede riforme e aperture -, il regime ha scelto di attivare la guerra manovrando dietro le scene. L’attacco del 13 aprile a Israele è stata la prima mossa diretta, "dovuta" (in rappresaglia al raid sulla rappresentanza iraniana a Damasco), ma attentamente calcolata per evitare un'escalation che Teheran non avrebbe la capacità di gestire.
2 - Gli Accordi di Abramo tengono. E la "mini-Nato" araba funziona
Se con il massacro del 7 ottobre Teheran pensava di sabotare il processo di normalizzazione regionale avviato da Trump con gli Accordi di Abramo, minando il progetto di pace regionale che si andava costruendo, con l’attacco del 13 aprile il regime ha certificato il fallimento del suo obiettivo. Non solo in questi sei mesi non si è concretizzata la rivolta dei cosiddetti “amici regionali” dei palestinesi che il pogrom puntava a sollecitare; non solo i palestinesi della Cisgiordania si sono ben guardati dall’approfittare delle difficoltà di Israele per ribellarsi a un’occupazione evidentemente più accettabile di una prospettiva che includa Hamas; non solo la Giordania, Paese con cui Israele ha un solido rapporto di amicizia dopo il Trattato di pace del 1994, ha deciso di schierarsi dalla parte di Gerusalemme; ma è accaduto pure che, dopo aver lanciato 300 munizioni contro Israele, il regime degli ayatollah abbia dovuto prendere atto dell’efficacia dello scudo politico-militare sunnita che unisce i Paesi degli accordi di Abramo: proprio quella “coalizione regionale” a cui hanno fatto riferimento prima il ministro della Difesa Yoav Gallant - “Il mondo ha visto il potere di una coalizione che, con Israele e gli Stati Uniti, ha bloccato questo attacco” -, poi il leader centrista Benny Gantz – “Costruiremo una coalizione regionale contro la minaccia dell'Iran ed esigeremo un prezzo”. La chiamano la “Mini-Nato” del Medio Oriente, ha un nome: Mead (Middle East Air Defense), ed è una base di partenza un nuovo futuro di stabilità cui tanti attori regionali stanno guardando con grande interesse.
3 - L’Iran parla con gli Stati Uniti. E li ascolta.
Come detto, è piuttosto chiaro che l’attacco sferrato sabato notte contro Israele sia stato calibrato dagli iraniani sulla capacità di risposta di Gerusalemme per non innescare un’escalation. I sistemi antimissili israeliani Iron Dome, David’s Sling e Arrow, con l’appoggio statunitense, hanno intercettato e neutralizzato il 99% delle munizioni lanciate in un volume evidentemente calcolato per non creare saturazione. In tutto questo è facilmente ravvisabile (anche) il pressing di Joe Biden, ufficializzato in quel “Don’t” (non fatelo) che è stato l’unico snodo visibile di una fitta rete sotterranea di comunicazioni tra Washington e Teheran (che non hanno rapporti diplomatici dal 1979) per evitare il peggio. Si è parlato di un “canale svizzero”. Quel che è certo, i percorsi aperti durante la lunga trattativa sul nucleare iraniano non sono stati interrotti dalla decisione presa nel 2018 da Donald Trump di uscire dal Jcpoa (Piano d'azione congiunto globale) raggiunto nel 2015 tra l’Iran, il P5+1 (i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. ossia Cina, Francia, Russia, Regno Unito, Stati Uniti, più la Germania) e l'Unione Europea. Dopo il suo insediamento, Biden ha riaperto la porta, dicendosi disposto a tornare nell’intesa (il che comporterebbe la rimozione di parte delle sanzioni verso Teheran), sempre che la Repubblica islamica torni ai livelli di arricchimento dell’uranio stabiliti dall’accordo. Il regime iraniano non ha mai mostrato l’intenzione di rispettare alcunché - tanto che, secondo l’Aiea, avrebbe incrementato progressivamente il processo di arricchimento dell'uranio, portandolo 27 volte sopra il limite previsto dall'intesa: un livello ormai vicinissimo all'arricchimento necessario per la costruzione di armi nucleari (che necessitano di uranio arricchito al 90%, mentre per utilizzare il nucleare a uso civile è sufficiente uranio arricchito al 3.67%, il limite previsto nel 2015) - ma insiste a cercare un dialogo che solleverebbe il Paese da un isolamento quasi insostenibile. E qui si aprono spazi di manovra per gli americani. Nel settembre scorso tra Iran e Usa c’è stato un accordo per uno scambio di prigionieri che ha previsto anche lo scongelamento di 6 miliardi di dollari dai fondi iraniani bloccati a causa delle restrizioni (e non ancora collocati nella disponibilità di Teheran). Tutti segnali che Biden ha carte importanti in mano e se le sta giocando, soprattutto in vista del voto americano di novembre. Un asso è stato sicuramente calato sabato scorso.
4 - Biden ne esce rafforzato
Il presidente si è mosso con saggezza e prudenza nel complicato scenario mediorientale, incassando almeno tre successi. Il primo. Ha dato prova di forza riuscendo a contenere l’iniziativa iraniana e disinnescando (oltre ai droni di Teheran) anche le critiche di quanti, in patria, gli rimproveravano un atteggiamento troppo morbido nei confronti della Repubblica islamica. La sua linea dialogante si è rivelata, almeno fino a qui, vincente, e il presidente ha potuto zittire i critici sostenendo che, anche grazie all’aiuto americano, l’attacco di Teheran è stato neutralizzato. Secondo punto. Biden, con l’efficacia della sua azione nell’intervento di sabato al fianco di un Paese pesantemente sotto attacco, ha potuto mettere in ombra le accuse di quanti, soprattutto dentro il suo stesso elettorato democratico, lo accusavano di “connivenza” con un governo, quello israeliano, ritenuto responsabile dell’alto numero di morti a Gaza. Terzo punto. Il presidente potrebbe a questo punto trovare un accordo con i leader democratici e repubblicani del Congresso per l’approvazione di un pacchetto di aiuti sia a Israele che all’Ucraina. Lo stallo sui fondi (circa 60 miliardi di dollari bloccati dal Gop) imbarazza da settimane il presidente, attirandogli critiche di inefficacia nel sostegno degli alleati. Ora il presidente repubblicano della Camera Mike Johnson ha annunciato che il partito “comprende la necessità di stare con Israele'' e che cercherà di portare avanti il pacchetto di spesa già questa settimana.
5 - Spazio per un atteggiamento moderato
Fin dall’inizio della guerra, il premier Netanyahu ha scelto la linea dura non solo con Hamas a Gaza ma anche con l’alleato americano, che più volte, del tutto inascoltato, ha richiamato il governo israeliano al rispetto delle leggi intenzionali di guerra e a una maggiore attenzione nella protezione della popolazione civile della Striscia. Bibi ha mantenuto fino a qui un atteggiamento sfidante, complice un rapporto personale con Joe Biden che è sempre stato tutt’altro che ottimale. Ma l’attacco di sabato ha spostato sensibilmente l’ago della bilancia nel campo di Biden: Netanyahu ha dovuto prendere atto degli sforzi diplomatici e militari che hanno contribuito a proteggere Israele in uno dei momenti peggiori della sua storia. E il richiamo del presidente americano a una collocazione solida al fianco dell'alleato israeliano nella difesa, che non significa offesa, dai nemici avrà probabilmente un peso nel ridurre la portata della risposta, annunciata, che Gerusalemme vorrà mettere in campo contro l’Iran. C’è di più. Il costo della contraerea operata sabato da Israele ammonta a 1,1 miliardi di dollari. Un conto salatissimo che Netanyahu sa di dover tenere nel conto. Soprattutto dopo sei mesi di un conflitto che comincia a pesare enormemente sull’economia, pur solida, del Paese.