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Utero in affitto. La Cina reclama i bebè «surrogati» rimasti all'estero per la pandemia

Stefano Vecchia giovedì 24 settembre 2020

Centinaia, forse migliaia di bambini nati da madri che nel mondo si sono prestate a una maternità surrogata per cittadini cinesi restano nei Paesi di nascita, in un limbo pieno di incognite e pericoli. È una delle conseguenze più nefaste di una pandemia che si è verificata in un tempo di forte espansione di pratiche che rispondono alla richiesta di molti cinesi di cercare all’estero una prole sempre più rara.

Nel gigantesco Paese asiatico la maternità surrogata è vietata in ogni forma dal 2001, ufficialmente per tutelare le donne che più facilmente potevano andare incontro a sfruttamento. Il divieto da un lato ha alimentato la pratica illegale in patria, dall’altro si è scontrata con la ritrosia a ricorrere all’adozione e con sempre minori nascite. Si calcola che almeno un cinese su otto in età riproduttiva soffra oggi di infertilità, con gli uomini maggiormente a rischio; d’altra parte, le donne sono sempre più orientate a una maternità ritardata nel tempo.

Seppellita la "politica del figlio unico", la possibilità dal 2016 di accedere a una prole più numerosa ha aumentato la ricerca di madri surrogate all’estero (e di mogli straniere), ma nel frattempo Thailandia, India, Nepal e Cambogia hanno (formalmente) chiuso le porte alla surrogata alla committenza internazionale e la pratica dell’utero in affitto resta possibile legalmente in poche nazioni, dove alimenta un business senza scrupoli (Russia, Ucraina, Bielorussia, Georgia in Europa, Laos in Asia; alcuni Stati Usa) a costi variabili da 35mila a 300mila dollari.

Questa realtà difficile da delimitare soffre ora delle conseguenze della pandemia. Su tutto prevale l’impossibilità dei genitori di raggiungere i piccoli già nati e sottoporsi all’esame del Dna per provare il rapporto di consanguineità necessario al loro espatrio, ma in difficoltà possono essere anche le madri surrogate in avanzato stato di gravidanza o che già hanno dato la luce bambini che non possono registrare come propri e nemmeno abbandonare a sé stessi. Ovviamente desta ancora più preoccupazione la sorte dei piccoli a cui viene negata la possibilità di espatrio o, anche quando questa viene concessa, la chiusura delle frontiere rende impossibile ricongiungersi con i genitori committenti.

L’impegno dell’Agenzia France Presse a far luce sulla drammatica realtà dei bambini nati in Russia per conto di famiglie cinesi si è scontrata con difficoltà che hanno reso impossibile definire il numero di quanti sono coinvolti. Immagini choc diffuse a giugno da un’agenzia ucraina di intermediazione per la maternità surrogata hanno mostrato 46 culle occupate da bambini destinati alla Cina ospitati in un albergo, ma in questo Paese, come anche in Russia e altrove, allungandosi i tempi di permanenza crescono i rischi per l’espatrio.

«Quando la polizia trova in casa di estranei bambini cinesi senza documenti di identificazione può pensare che si tratti di piccoli a rischio di espianto di organi», ha segnalato un centro specializzato in maternità surrogata di San Pietroburgo. Da qui la corsa dei genitori committenti a cercare per i neonati ospitalità in centri specializzati, possibilmente pubblici, spendendo migliaia di dollari al mese.

Proprio ieri la Garante per i diritti dei bambini di San Pietroburgo, Anna Mitianina, in una conferenza stampa ha espresso l’intenzione di organizzare un «volo umanitario» con destinazione Pechino per portare in Cina 30 bambini nati da utero in affitto, tutti con «regolare» documenti di identità cinesi. Alcuni sono parcheggiati in orfanotrofio, altri «si trovano da qualche parte, non sappiamo esattamente dove perché sfuggono al controllo» delle autorità.

Le agenzie per la Gpa «sono troppo opache e preferiscono non condividere informazioni sulla loro attività», ha concluso Mitianina.

Se per molti committenti di bambini prossimi alla nascita o già nati all’estero l’attesa è angosciante oltre che onerosa, altri in Cina vanno rivolgendosi al "mercato" interno per garantirsi un figlio. Pratiche che privilegiano chi per il proprio ruolo (militari o alti funzionari di partito, ad esempio) non può recarsi all’estero per soddisfare la voglia di prole e può contare in patria su sufficienti connessioni. Una scelta rischiosa che si stima riguardi 30mila pratiche illegali all’anno.

Il caso indiano​. Una legge che fa discutere

Sono serviti 15 anni di Far West perché l’India si dotasse di una legge sulla maternità surrogata. La prima iniziativa legislativa, nel 2005, aveva parzialmente regolato un’“industria” che aveva raggiunto dimensioni e modalità abnormi e centrata sulla richiesta estera, senza però intervenire sulle tecniche riproduttive associate all'utero in affitto, come la fertilizzazione in vitro e l’inseminazione artificiale. Nel 2015, davanti ai tentennamenti della politica, la Corte Suprema aveva espresso la sua contrarietà alla pratica commerciale destinata a coppie sposate o conviventi, etero o omosessuali che non fossero di cittadinanza o di origine indiana. Questa posizione è stata alla base della proposta di Legge sulla regolamentazione della maternità surrogata del 2016, decaduta per la fine della sessione parlamentare ma ripresa in buona parte nella nuova versione del documento, discussa alla Camera alta del Parlamento e approvata dal governo lo scorso marzo. Contrariamente alla versione discussa nella Camera bassa a fine 2019, però, vengono attenuati gli obblighi della gratuità e della consanguineità tra committenti e surrogate. Le madri surrogate in sostanza sono «libere» di accettare il contratto anche con estranei e dietro compenso. Mosse che sembrano mirate a supplire all’infertilità crescente nel Paese e a raccogliere consenso politico più che a proteggere le donne dallo sfruttamento.