Iran. Hassan Rohani, il moderato che deve imparare a «graffiare»
Alla fine Hassan Rohani è stato rieletto per un secondo mandato, come tutti i presidenti che l’hanno preceduto nella storia della Repubblica islamica. A fianco di lui si erano schierati - oltre che la maggioranza degli iraniani - anche tutti i leader del fronte riformista. Da quelli in libertà, come Mohammad Khatami (“Rohani è il nostro candidato”, aveva scritto l’ex presidente sul suo sito), a quelli agli arresti domiciliari, come Mehdi Karrubi e Mir Hossein Mussavi, che avevano guidato il movimento di protesta contro Mahmud Ahmadinejad, al suo proprio vice Eshaq Jahangiri che si era ritirato dalla corsa per evitare di disperdere il voto moderato. Il voto di ieri, che rappresentava una sorta di referendum sull’operato di Rohani negli ultimi quattro anni, ha dato un esito positivo. Ciò non toglie che il primo mandato presenti luci e ombre. Il punto positivo messo a segno da Rohani è quello di aver fatto uscire l’Iran dall’isolamento internazionale grazie al raggiungimento, nel luglio 2015, di un accordo sul nucleare, che prevedeva una riduzione del programma iraniano in cambio della fine delle sanzioni internazionali. Tra gli aspetti negativi, invece, la situazione delle libertà individuali e dei diritti umani, che Rohani aveva promesso di promuovere. Repressione e censura sono, infatti, ancora all’ordine del giorno. Decine di attivisti, giornalisti, blogger e artisti sono in carcere per motivi politici, mentre nei quattro anni del suo mandato sono state circa 3.000 le esecuzioni capitali, il numero più alto mai registrato in 25 anni.
Il dossier nucleare
I sostenitori di Rohani affermano che la priorità del governo era il dossier nucleare, facendo intendere che convincere la Guida suprema Khamenei ad accettare cambiamenti a livello sociale si è rivelato un compito molto difficile. Senza dimenticare che le possibilità di manovra all’interno del sistema iraniano sono ridotte per un presidente della Repubblica, con molti poteri che sfuggono totalmente al suo controllo, come quello giudiziario e i servizi di sicurezza, dominati dalle fila più conservatrici del regime e dai Guardiani della rivoluzione. Da parte sua, Khamenei non ha perso nelle ultime settimane occasione per criticare l’operato di Rohani, «lontano dalle aspettative della popolazione e di me stesso». Due settimane fa, ha addirittura accusato l’esecutivo di Rohani di aver accettato il piano Educazione 2030 proposto dall’Unesco che intende introdurre in Iran «lo stile di vita occidentale deficiente, corrotto e distruttivo».
Ma è il tanto decantato accordo sul nucleare a rappresentare, paradossalmente, uno dei principali punti oggetto di critica a Rohani da parte di molti iraniani. Non solo dei conservatori che l’hanno accusato di aver svenduto il Paese, ma anche di alcuni riformisti, secondo i quali l’accordo non ha sortito i risultati che si aspettavano sotto l’aspetto economico. Infatti, le sanzioni poste dalle grandi banche internazionali sugli investimenti in Iran non sono state recovate. Così, e nonostante alcuni progressi economici, il Paese stenta a uscire dalla recessione e dall’aumento del tasso di disoccupazione. Rohani si difende affermando di aver ridotto, in quattro anni, l’inflazione da oltre il 40 per cento a meno del 10 per cento,ma ora deve impegnarsi maggiormente su questo fronte.
Il maggiore pericolo in agguato si profila tuttavia dietro il temuto cambio di rotta nei confronti dell’Iran da parte della nuova amministrazione Usa. Il presidente Trump è oggi in Arabia Saudita e le autorità di Riad hanno convocato per lui un vertice panislamico al quale non è stato invitato l’Iran. Ogni decisione ostile all’Iran o una revisione dell’accordo nucleare non potrà che mettere i bastoni tra le ruote di un secondo mandato non ancora iniziato, rafforzando la posizione di chi cerca lo scontro.