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Il caso. Charley, la bimba che non crescerà

ELISABETTA DEL SOLDATO giovedì 7 gennaio 2016
I genitori di una bambina disabile grave hanno deciso di bloccare la sua crescita attraverso la somministrazione di ormoni, una terapia già conosciuta negli Usa con il nome di “Trattamento Ashley”, con la «speranza di rendere la sua vita migliore». Il caso di Charley Hooper, la bambina neozelandese di dieci anni, affetta da una forma grave di autismo e da paralisi cerebrale, ha fatto il giro del mondo lasciando i più, tra cui molti esponenti della categoria medica, sbigottiti.  Charley non può parlare o camminare, è cieca e incapace di controllare i movimenti del corpo. I genitori, Jenn e Mark, riescono a capirla solo dai gemiti e dagli spasmi muscolari del viso e il loro timore è sempre stato che una volta cresciuta Charley avrebbe «sofferto in un corpo troppo grande per lei», che sarebbe finita a letto per sempre con elevate difficoltà di assistenza. La prima volta che la coppia ha sentito parlare di «arresto della crescita» era il 2006 quando una rivista medica statunitense ha pubblicato la storia di Ashley, una bambina con gravi disabilità di Seattle sottoposta a un intervento chirurgico e farmacologico per fermarne la crescita. Aveva nove anni e la capacità cognitiva di una neonata di tre mesi. «Quando sentimmo di Ashley – hanno detto recentemente alla stampa i coniugi Hooper – ci tornò la speranza. Se Charley fosse rimasta piccola la vita sarebbe stata molto più facile per lei, avremmo potuto continuare a portarla fuori e non avrebbe rischiato di finire presto confinata in un letto». Ma ottenere la terapia, che in Nuova Zelanda non è stata mai praticata, non è stato facile per la coppia. Dopo il «no» della commissione etica del Parlamento neozelandese i genitori hanno deciso di recarsi altrove; hanno trovato un medico nella Corea del Sud che ha accettato di prescrivere e fornire alla piccola la prima dose del trattamento di ormoni e poi, muniti dei farmaci, sono tornati in Nuova Zeanda. A quel punto la commissione etica non ha potuto bloccare le “cure” già iniziate per ragioni di sicurezza. Charley ha oggi dieci anni ma ne aveva sette quando è stata sottoposta a un’operazione per la rimozione dell’utero. «Volevamo che evitasse le pene mestruali – hanno spiegato i genitori – e gravidanze indesiderate nel caso in cui fosse diventata vittima di abusi». Oggi Charley pesa 24 chili ed è alta un metro e 30 centimetri e resterà così per tutta la vita. Per alcuni la sua storia è da considerare  un «prodigio della medicina» ma per i più il “Trattamento Ashley” altro non è che una violazione dei diritti umani. «Non vorremmo mai arrivare ad usare un trattamento così invasivo – ha commentato Gary Butler, presidente della European Society for Pediatric Endocrinology –. Fino a che punto facilitare l’assistenza può essere una scusante per asportare totalmente la femminilità più intima di una bambina sopprimendo il suo diventare adulta seppure in modo differente dalla norma?».