La missione. Giordania, «dignità per i profughi di Zaatari»
Monsignor Galantino visita il campo profughi di Zaatari
«La comunità internazionale avrà pensato innanzitutto alla protezione delle persone, ma ora il rischio è quello di trasformare la prima accoglienza in una sistemazione semi-definitiva, contribuendo, anche senza volerlo, a perpetuare la tragica condizione di persone private della dignità e rese in tutto dipendenti dagli aiuti esterni».
Wael Suleiman, cinquantenne direttore generale di Caritas giordana, ferma la macchina davanti al cancello del campo profughi di Zaatari, nel nord della Giordania. La frontiera siriana dista una decina di chilometri. Davanti agli occhi, una distesa uniforme in cui tende e prefabbricati si confondono con la polvere del deserto. Aperto nel 2012 sotto la bandiera dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati e di altre agenzie umanitarie, ospita oltre 80mila profughi siriani. «Dall’inizio della crisi, in Giordania sono entrati un milione e 400 mila siriani – continua Suleiman – eppure abbiamo fatto di tutto per integrarli, affittando case nei quartieri urbani, allestendo scuole, favorendo la qualità della vita comunitaria. Perché, dunque, non cercare di superare Zaatari?».
Incontro con altri bimbi nel campo profughi
Altrove si sussurra che l’ingente investimento in infrastrutture – acqua, luce, strade, cliniche, servizi – miri a farne una città in cui un domani collocare, come già avvenuto in corrispondenza delle fasi più acute del conflitto arabo-israeliano, i palestinesi che vivono in Siria e Libano.
Inizia da questo campo il viaggio che, da martedì 11 a ieri, ha portato in Giordania monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei. Un viaggio che scorre in una sequenza di immagini.
Il progetto «Rafedin», un laboratorio di cucito. Lavoro e dignità
Oltre la soglia è un brulicare di gente che vive tra i pochi metri quadrati di una baracca e la speranza di fare ritorno a casa. Entriamo in un caravan: con caffè e biscotti passano fotografie di vite bruscamente interrotte, case abbandonate in fretta, famiglie spezzate. Sono vicende che nei racconti dei profughi torneranno puntuali: vicende simili, forse identiche, eppure ciascuna così unica e lancinante per chi la prova sulla propria pelle. Nella tenda successiva una giovane mamma lotta con un tumore e col ritardo di un visto, al quale è appesa la speranza di potersi curare all’estero.
Un ufficio della Caritas giordana per i profughi
Lungo le "vie" del campo sono negozi, bazar e bancarelle. Dalle immagini memorizzate dei telefonini esce il fuoco provocato da bombe a grappolo e al fosforo su ospedali, civili in fila per l’acqua e il pane, convogli umanitari. Fumo e macerie rendono difficile riconoscere le località: potrebbe essere Sarajevo, Groznyj o Aleppo. Sullo sfondo si intuisce, dopo gli anni dell’interventismo militare, il disimpegno americano ed europeo davanti a crimini contro l’umanità, oggi firmati dal regime di Damasco con l’appoggio russo e iraniano.
Colombe di pace
Il viaggio continua, altre immagini compongono una rete solidale. Ecco, in una città come Zarqa – dalla forte influenza salafita – l’opera della parrocchia «Mater Ecclesiae», dove padre Khalil Jaar può presentarci con legittimo orgoglio i 200 ragazzi iracheni che frequentano la "sua" scuola: «Non ho lasciato fuori nessuno». Ecco Mafraq, cittadina ieri senza opportunità, che grazie all’intraprendenza di 120mila profughi e al lavoro della comunità di padre Francesco – che ha aperto asilo, scuola e clinica – ora è attraversata da una vivacità inedita.
Ecco il progetto «Rafedin», animato dal toscano don Mario Cornioli, dove una ventina di ragazze scappate da Mosul e Ninive si mantengono realizzando abiti. Ecco nei quartieri poveri di Amman l’assistenza a famiglie bisognose, assicurata da volontari della Caritas. Ancora, il «Ristorante della Misericordia», con i suoi 500 pasti serviti gratuitamente a poveri e bisognosi.
Una famiglia di profughi
E poi il «Giardino della Misericordia», centro culturale sostenuto dal Sacro Convento d’Assisi... Sono immagini che, nell’album incompleto del Medio Oriente, vanno di pari passo con quelle delle persone in fila davanti alle ambasciate, dove molta pazienza e 50 dinari ottengono il visto per un nuovo esodo. Un modo per ringraziare Papa Francesco e i fratelli italiani.