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Ucraina. Caterina e Alla, le due donne che hanno aiutato Volodymyr a salvare 52 bambini

Daniela Pozzoli lunedì 17 luglio 2023
La figlia Caterina ha lo stesso sguardo del padre. Gli occhi azzurri non tradiscono mai, ammesso che ce l’abbia, paura di dire quello che pensa, quello per cui vive. Mamma Alla è più dolce, comprensiva e però senza di lei Volodymyr non ce l’avrebbe fatta a nascondere e salvare dai russi, affidandoli a famiglie ucraine, 52 bambini ospiti dell’istituto di Kerson. Il direttore del centro d’accoglienza per minori viene dall’«inferno della guerra», a lui il Tribunale per i minori ha affidato per anni bambini e ragazzi con situazioni familiari difficili o senza genitori. Una comunità dove sperare e sperimentare una vita normale. «Si è sempre sentito responsabile come un padre – spiega la moglie Alla in italiano, lingua che ha imparato durante i soggiorni estivi come accompagnatrice dei ragazzini –. Per due mesi all’inizio dell’invasione ha vissuto insieme ai ragazzi. Li rassicurava quando i russi facevano irruzione o le bombe cadevano in giardino. Ogni giorno si diceva che sarebbero stati aperti i corridoi umanitari, ma non è accaduto e tutti si sono salvati grazie alla generosità delle tante famiglie che li hanno accolti nonostante avessero a malapena da mangiare».

Volodymyr insisteva per far partire per l’Italia moglie, figlia e il nipotino Maxim di 10 anni: «Andarsene era all’ordine del giorno. Nel mio caseggiato su 250 appartamenti solo 20 sono occupati», spiega la figlia Caterina. Le fa da interprete Loredana, una volontaria del Gruppo parrocchiale “Ukrainitaly” della comunità Visitazione di Maria Vergine di Cormano, paese industriale alle porte di Milano. Da vent’anni l’associazione lombarda offre soggiorni estivi ai bambini e non ha fatto mancare gli aiuti durante la guerra. «Io e mia mamma come avremmo potuto scappare?», ragiona Caterina. Ex insegnante d’inglese, da quando ha dovuto chiudere la propria attività commerciale, si è messa a disposizione del padre. Ma non vuole sentirsi attribuire meriti, la sua è una scelta inevitabile, logica, e anzi naturale: «Papà risente ancora delle conseguenze del Covid che stava per ucciderlo. Lo vedo, quando torna con il respiro corto e la gamba dolorante dalle consegne dei pacchi nei villaggi. Come avremmo potuto lasciarlo solo durante alcune trasferte in posti particolarmente distanti?».

Dunque «nessun eroismo». In fondo, dice l’ex insegnante, seduta nella redazione di Avvenire, «ognuno fa la sua parte. E poi che senso avrebbe restare a casa con l’ansia che papà non torni più? Come quella volta che s’è accorto di un drone ed è riuscito a scappare poco prima che una bomba lo centrasse. Lui è un bersaglio dei russi e ogni giorno può essere l’ultimo, ma resistiamo e ci siamo in qualche modo abituati alla normalità dell’assurdo. Mio figlio Maxim suona il piano e gioca a pallone, è un bambino e nello stesso tempo è diventato grande, ci aiuta anche a confezionare i pacchi dei soccorsi insieme con i suoi amichetti. L’altro mio figlio, Dima, ha 20 anni e se n’è andato, ha raggiunto il padre in Israele. E sono sicura che per lui è stato meglio così».

Donne come Alla e Caterina aiutano altre donne, come le amiche che operano nel “Club dei volontari di Kherson”, organizzazione attiva oggi e anche prima della guerra: «Da 300 famiglie sostenute siamo passati a 800, tra cui 1.500 bambini – interviene Alla –. Postiamo su Facebook l’annuncio di quello che arriva: pacchi alimentari, materiale scolastico, come i 1.500 zainetti donati, o le culle per neonati…». «Sì, culle per neonati – ripete la volontaria e traduttrice Loredana –. Sono nati tanti bimbi dall’inizio della guerra, Caterina spiegaci come mai…».

«Io – dice la figlia di Volodymyr – sto crescendo mio figlio da sola, ma molte ucraine cercano di restare incinte prima che il marito parta per la guerra. Non sanno se quegli uomini torneranno, se i loro figli saranno orfani, hanno però ben chiaro che ogni bambino è la vita che va avanti».