Stati Uniti. La carovana dei migranti resta ferma in Messico
Un migrante honduregno mentre prova a superare il confine con gli Stati Uniti a Tijuana, in Messico (Foto Ansa)
«Vuol dire che ci faranno entrare?» La voce di Harlin si entusiasma per un momento quando gli viene annunciata l’ultima decisione della Corte Suprema. Cinque giudici su quattro, venerdì, hanno bocciato la stretta voluta dal presidente Donald Trump il 19 novembre, con cui si impediva a chiunque entrasse illegalmente negli Usa via terra di presentare richiesta d’asilo. Nemmeno lo stop dei magistrati – un "regalo di Natale", sottolineavano i media –, però, è in grado di consegnare al popolo della Carovana le chiavi della “gabbia dorata” statunitense. Dei diecimila, partiti dall’honduregna San Pedro Sula il 13 ottobre e arrivati a metà novembre a Tijuana, al confine con gli Usa, sono rimasti in 2.600.
Gli irriducibili, li hanno soprannominati. Attendono ostinati nel rifugio El Barretal, dove li hanno alloggiati le autorità dopo l’allagamento della precedente sistemazione. «Arriverà, alla fine, il nostro turno di chiedere asilo, no? In Honduras, ho denunciato la gang che taglieggiava il mio quartiere. Non posso tornare: mi ucciderebbero», racconta Harlin, 24 anni, fuggito da San Pedro Sula con la prima – e più numerosa – delle diverse Carovana in marcia verso Nord.
I requisiti, però, contano poco. Giovedì, un accordo tra i governi di Washington e Città del Messico ha rivoluzionato le “regole del gioco”. I richiedenti asilo negli Usa non aspetteranno più la risposta nel Paese. Prima, dato l’ingolfamento dei tribunali, gli immigrati venivano lasciati in libertà in attesa dell’udienza che, in genere, arrivava dopo anni. La cancellazione della cosiddetta pratica del “catch and release” è da sempre uno dei cavalli di battaglia dell’attuale Amministrazione. Tanto da spingerla all'adozione di misure controverse, dalla separazione delle famiglie immigrate, all'ampliamento dei centri detentivi. Stavolta, Trump sembrerebbe aver trovato “la quadratura del cerchio”. Con l’aiuto, imprevisto, del vicino messicano. Quest’ultimo accoglierà i richiedenti asilo sul proprio territorio fino al verdetto Usa e darà loro un visto provvisorio. Il nuovo presidente, Andrés Manuel López Obrador, ha precisato che l’accordo è stato raggiunto per «ragioni umanitarie» e la misura è provvisoria. Per i carovanieri, però, il sogno americano, così “a portata di piede”, sembra inesorabilmente allontanarsi. «La sera, si vedono le luci di San Diego e del resto della California. È così vicina... Non perdo la speranza. Soprattutto ora che è Natale», sottolinea Harlin. Già Natale. Lontani quattromila chilometri dalle famiglie, prigionieri di un labirinto burocratico, gli ospiti di El Barretal non rinunciano a celebrarlo con le tradizionali “posadas”: rappresentazioni della Natività spesso attualizzate. Non sorprende, dunque, che abbiano messo particolare enfasi nella non accoglienza, da parte degli abitanti di Betlemme, della Sacra Famiglia.
«Anche qui da noi ci saranno le posadas», afferma padre Javier Calvillo, direttore della Casa del migrante di Ciudad Juárez, sempre sulla frontiera, ma oltre mille chilometri più a est. Nel rifugio sono giunte, nelle ultime settimane, alcune centinaia di immigrati della Carovana, ansiosi di lasciarsi alle spalle “l’imbuto Tijuana”. A Juárez, la fila per presentare istanza di fronte alle autorità Usa è stata più fluida, almeno fino all'entrata in vigore delle nuove regole. Anche per loro, però, ora, il futuro è incerto. «Per sollevare il morale, abbiamo invitato la comunità locale a condividere le prossime serate con i nostri ospiti – dice padre Javier –. Tanti hanno chiesto di poter portare regali per i bambini. Altri delle specialità. Anche gli immigrati cucineranno i loro piatti tipici». «Pure noi abbiamo coinvolte le famiglie, le parrocchie e il seminario: tutti ci danno una mano per non far sentire la solitudine ai nuovi arrivati», aggiunge Linda Flor, prima laica a guidare la Pastorale migranti di Chihuahua, dove sono approdati diversi transfughi della Carovana. Non tutti, però, sono riusciti a trovare posto nei rifugi.
Axel e la famiglia hanno lasciato il gruppo a Città del Messico e hanno puntato su Matamoros, dove dormono in un garage di conoscenti. «Ci avevano detto che era più facile “passare”», afferma il 14enne che ha fatto la marcia in stampelle. Il 27 luglio, un proiettile della polizia nicaraguense gli ha tolto l’uso delle gambe. «Ma se verrò operato negli Usa, so che potrò guarire. Non mi importa quanto dovrò aspettare al freddo, per quanto tempo dovrò mendicare un po’ di cibo. Dio mi darà la forza di resistere, senza perdere la speranza».