Il reportage. Buenos Aires, la città della “furia” ruggisce più forte del Leone Milei
Decine di migliaia di persone hanno invaso mercoledì il centro di Buenos Aires per contestate Milei
C’era una volta “la città della furia”. Sono trascorsi trentasei anni da quando la stella del rock argentino Gustavo Cerati compose il motivo che sarebbe rimasto appiccicato a Buenos Aires come una seconda pelle. Le generazioni cresciute dopo l’ultima dittatura militare la chiamano così. All’epoca era appena terminata la grande “fiesta” per il ritorno della democrazia e l’Argentina doveva fare i conti con la prima delle molte crisi che avrebbero marchiato a fuoco i decenni successivi.
L’iper-inflazione galoppante, combattuta allora dal peronista Carlos Ménem a colpi di liberalizzazioni, sarebbe stata lo spettro ricorrente per governi di differente colore politico. Anno dopo anno, la pista della corsa al rialzo dei prezzi – interrotta da brevi pause di illusoria stabilità - ha finito per lastricarsi dei sogni infranti dei cittadini. Fino all’attuale traguardo mondiale del 211 per cento. «I miei genitori risparmiavano nella speranza di comprarsi una casa. Non ci sono riusciti. Io risparmio per cercare di comprarmi un chilo di carne per “l’asado” del fine settimana. E non ci riesco – dice Alejandro, 36 anni, proprietario di una palestra –. Come faccio a non essere arrabbiato?».
Ora più che mai Buenos Aires è la “città della furia”. «A tanti della classe media e dei professionisti Javier Milei non piace perché grida. “Non mi rappresenta”, affermano, indignati. A me sì. Rappresenta la rabbia mia e delle altre persone dei settori popolari a cui è stata tolta ogni possibilità di progresso», aggiunge Andrés, 36 anni, nato nella baraccopoli di Fiorito, «come Maradona», precisa. Al pari di Alejandro, è tra i dirigenti di “La Julio”, movimento creato nel 2022 in sostegno dell’allora possibile candidato e attuale neo-presidente. Una versione liberista de La Cámpora kirchnerista: il nome, in questo caso, non deriva dal braccio destro di Perón bensì dal leader ottocentesco Julio Roca, a cui sostiene di ispirarsi Milei. Il circolo di Lomas de Zamora – sterminato municipio di 700mila abitanti alle porte della capitale – è tra i più attivi dei sette esistenti nel Paese.
"Il Leone”, come lo chiamano nella sede modesta lungo la trafficata via Hipólito Yrigoyen, ha ottenuto il 24 per cento dei consensi in uno dei bastioni del peronismo. «E non l’hanno scelto i ricchi ma persone semplici come noi», sottolinea Marcelo, 37 anni, venditore di bibite all’ingrosso che sette anni fa ha deciso di mettersi in proprio. Con la mano indica gli altri attivisti presenti oltre ad Alejandro e Andrés: Nicolás, 24 anni, impiegato nella raccolta dei rifiuti, Sebastián, 40 anni, addetto nelle spedizioni, Adrián, 36 anni, panettiere. Alcuni di loro hanno votato in passato per il peronismo. «Ma poi abbiamo visto come precipitava tutto». Raccontano di essersi imbattuti per caso, facendo zapping in tv o sui social, nel Milei rabbioso ospite fisso dei talk show e di esserne rimasti affascinati. Il suo racconto del liberalismo, l’idea di dollarizzare l’economia, la promessa di eliminare la casta e la microcriminalità li ha conquistati. «Era economista eppure diceva le stesse cose che avevo sempre pensato. Aveva la mia stessa ira contro i politici multimilionari e i sindacalisti con le auto di lusso», sottolinea Nicolás. Andrés è addirittura rientrato un anno fa dal Cile, dove era emigrato in cerca di opportunità, per unirsi alla campagna mileista. «Ho raggiunto il primo obiettivo per cui sono tornato. Ora andrà meglio per tutti».
Il presidente argentino Javier Milei - Ansa
Il 58 per cento degli argentini – in base agli ultimi sondaggi – condivide la sua opinione. Il resto, invece, è furente per l’ondata di privatizzazioni, i tagli alla spesa sociale, la deregulation, annunciati in campagna e confermati dai provvedimenti iniziali del governo. Il piano di “aggiustamento”, varato dal ministro dell’Economia Luis Caputo all’indomani dell’entrata in carica del governo, ha svalutato la moneta nazionale, il “peso”, del 118 per cento, provocando un’impennata dell’inflazione mensile del 25 per cento. Poco dopo è arrivato il “decretazo”: un maxi-decreto con cui Milei si propone «sottrarre l’economia alla schiavitù dello Stato». Il più recente è il progetto di legge “ómnibus” che attribuisce al presidente una serie di competenze speciali, sancisce la vendita delle imprese pubbliche e semplifica l’acquisto per gli straniere di terre e risorse, impone limiti alle proteste, aumenta le tasse sulle esportazioni. Da martedì sarà discusso al Congresso in una versione “ammorbidita”. «Non si tratta solo di un’aggressione contro i lavoratori e i loro diritti individuali, collettivi e sindacali. Il governo vuole eliminare il ruolo dello Stato nella vita economica. E far pagare il conto della crisi ai settori più vulnerabili che hanno visto il prezzo della carne moltiplicarsi per quattro. E dal primo febbraio pagheranno il quadruplo anche il biglietto del bus», tuona Héctor Daer, co-segretario della Confederación general del trabajo (Cgt), il più potente sindacato argentino che ha già promosso tre proteste da quando è iniziato il mandato di Milei:u n inedito in 40 anni di democrazia. L’ultima, mercoledì, con lo sciopero generale al grido «la patria non si vende». Di fronte alla piazza del Congresso della capitale, migliaia – 600mila secondo gli organizzatori, 40mila per l’esecutivo – lo ripetevano a perdifiato, concentrando tutta la loro rabbia in cinque parole.
La “citta della furia”, anti-Milei in questo caso. «Un popolo variegato. Non è più una questione del sindacato o dei lavoratori. È una questione nazionale. Lo sciopero lo ha dimostrato. In piazza c’erano studenti, pensionati, intellettuali, ricercatori, movimenti popolari, ecologisti e attivisti per i diritti umani – sottolinea Daer –. Per questo chiediamo ai parlamentari di esercitare la potestà per cui sono stati eletti: difendere le istituzioni». Il presidente è stato categorico: nessun cedimento – ha risposto – agli attacchi della «casta mafiosa» nello sforzo per restituire la libertà agli argentini. «Retorica a parte, il governo ha proposto finora un classico piano per contenere l’inflazione e generare dollari. Austerità e deregolamentazione non hanno, però, ancora prodotto una stabilizzazione – spiega Augustín Salvia, direttore dell’Observatorio de la deuda social dell’Università cattolica argentina (Uca ) –. Potrebbero farlo. Più il tempo passo, però, più diventerà difficile per i cittadini reggere un simile livello di inflazione». «Oltretutto – continua –, c’è il rischio che la minor spesa pubblica lasci senza introiti quanti lavorano nell’economia informale, il 50 per cento della manodopera. Questo farebbe schizzare ancora la povertà, già al 40 per cento. È un momento di grande incertezza. Tutto si giocherà nei prossimi mesi: Milei ha massimo un anno per portare a casa dei risultati convincenti». Ancora la “città della furia”, complice l’estate australe, è sospesa. Con la discesa del termometro, però, potrebbe esplodere.