Diplomazia. Tra l'Occidente e la Russia uno storico scambio di prigionieri
Il più grande scambio di prigionieri dai tempi della Guerra Fredda, con Russia e Stati Uniti che, di fatto, inaugurano una nuova era nelle loro relazioni e il presidente uscente, Joe Biden che mette a segno un punto destinato ad avere conseguenze anche sulla campagna elettorale verso il voto di novembre. Ventiquattro detenuti, 16 per gli Stati Uniti, 8 per la Russia. «Un’impresa diplomatica», come l’ha definita il presidente statunitense, sulla quale hanno lavorato 7 Paesi: la Russia da una parte e sei Paesi della Nato nello specifico Stati Uniti, Germania, Polonia, Slovenia, Norvegia e Turchia.
Fra le persone liberate da parte Nato ci sono tre americani, fra cui il reporter del Washington Post, Evan Gershkovich, un possessore di green card, cinque cittadini tedeschi e sette cittadini russi, tutti accomunati dalla resistenza al regime del presidente Putin e relativi problemi con la giustizia. Alcuni nomi di quest’ultimo gruppo sono particolarmente importanti. Fra le persone tornate libere ci sono l’intellettuale Vladimir Kara-Murza, Ilya Yashin, collaboratore di Alexeij Navalny, il nemico numero uno di Putin, morto in carcere lo scorso febbraio, e il premio Nobel Oleg Orlov. Tutti sono finiti in carcere, con pene detentive dagli otto ai 25 anni, per aver criticato la guerra in Ucraina sotto diversi aspetti, dall’impreparazione degli apparati militari, al massacro perpetrato dalle armate russe a Bucha. Diverso il curriculum vitae degli ex prigionieri che torneranno da persone libere in Russia. Ci sono in lista spie, condannati per corruzione, e c’è soprattutto Vadim Krasikov, condannato per l’assassinio di un ex militante ceceno avvenuto in pieno giorno a Berlino nel 2019 e di cui il presidente Putin era stato considerato il mandante morale.
Proprio alla Germania è andato il ringraziamento speciale del presidente americano, Joe Biden, che nel suo discorso per commentare lo scambio ha parlato di «un’agonia finita», sottolineando che i prigionieri «hanno sopportato sofferenze e incertezze inimmaginabili». Biden ha rimarcato subito dopo quanto sia importante avere solide alleanze su cui contare. Le sue parole sono state rilanciate dalla candidata democratica Kamala Harris, che è destinata, a livello di campagna elettorale, a capitalizzare quello che nel Paese è già stato ribattezzato come «uno scambio storico».
Mesi di negoziati «difficili e complessi» si sono concretizzati nel giro di poche ore. Ieri nella prima mattina è arrivata la notizia che due aerei erano partiti dalla Germania in volo per Kaliningrad, la exclave russa in territorio europeo e almeno tre si erano alzati in volo, diretti verso l’aeroporto Esenboga di Ankara, dove gli americani rilasciati si sono imbarcati alla volta degli Stati Uniti. La prima conferma ufficiale che lo scambio dei prigionieri si era concluso è arrivata proprio dalla presidenza della Repubblica turca. Ankara ha avuto un ruolo particolare, confermando la sua ambiguità di Paese membro della Nato, ma allo stesso tempo interlocutore preferenziale di Mosca. Dopo l’accordo sul grano, ha avuto un ruolo anche in questa mediazione, oltre ad avere garantito tutto il coordinamento logistico. Un passaggio obbligato per il presidente Putin, che ha tutto l’interesse a mantenere attaccata la Mezzaluna, creando così un effetto destabilizzante all’interno del Patto Atlantico.
Biden ha anche detto di «non avere bisogno di parlare con Vladimir Putin». E Putin non deve aver sentito il bisogno di parlare con nessuno. Si è limitato, se così si può dire, a firmare un decreto con cui ha graziato i detenuti che sono stati rilasciati. Mentre è stato l’Fsb, il servizio segreto interno, a confermare che gli ex otto prigionieri liberati – soprattutto da Germania, Polonia e Slovenia – sono già sul territorio nazionale. I commenti verranno fatti «solo a tempo debito», ha annunciato il portavoce del Cremlino.