Asia. Pakistan: caccia a due cristiani accusati di blasfemia
Manifestazione contro la persecuzione dei cristiani
Due cristiani, accusati di avere insultato il Corano e Maometto, rischiano in Pakistan l’arresto per blasfemia. La denuncia di un presunto «testimone» di fede islamica, necessaria alla polizia per aprire un’indagine, è stata registrata sabato scorso nella città di Lahore. Gli articoli del Codice penale, più noti nel loro insieme come “legge antiblasfemia”, prevedono pene pesanti per chi si macchi di questo reato.
Difficile per chi non disponga di mezzi adeguati potere provare la propria innocenza davanti ad accuse spesso pretestuose fondate su contese personali. La sensibilità dominante in un Paese in maggioranza islamico e l’incertezza della giustizia mettono spesso in condizioni di grave pericolo gli accusati, come testimoniano le decine di uccisioni, in diversi casi di individui già sotto custodia.
Nello stesso giorno in cui è circolata la notizia dei nuovi casi di blasfemia, si è invece concretizzata la fine dell’incubo per Farah Shaheen, la giovane cristiana liberata all’inizio di dicembre 2020 dal suo sequestratore-marito e due giorni fa, a otto mesi dal sequestro, autorizzata dal tribunale di Faisalabad a ricongiungersi alla famiglia d’origine.
Aveva solo 12 anni Farah, quando il 45enne musulmano Khizar Hayat l’aveva rapita dalla sua abitazione con l’aiuto di due complici. Detenuta in casa dell’uomo che l’aveva sposata dopo una conversione pro-forma, era stata stuprata e torturata, costretta a vivere in condizioni di sostanziale schiavitù. Dopo che per l’insistenza della famiglia era stata accertata la mancata registrazione del matrimonio per fini civili e la mancata verifica del matrimonio islamico da parte delle autorità religiose, la giovane era stata separata da Hayat e trasferita in una struttura protetta governativa. A gennaio, poi, la polizia aveva lasciato cadere l’accusa di sequestro contro il “marito” sostenendo che l’unione era stato consensuale.
Nella sentenza di martedì, il giudice Rana Masood Akhtar ha stabilito l’impossibilità di una permanenza prolungata nel rifugio e che la volontà del padre di accoglierla consente di restituirla alla famiglia sotto la sua esclusiva responsabilità. Una soluzione positiva per Farah. A altri casi simili attendono un giudizio definitivo, a volte dopo un iter lungo e tormentato che coinvolge una parte delle donne delle minoranze religiose che ogni anno, si stima, sono costrette a conversione e matrimonio. Di questi casi, come segnala il Centro per la giustizia sociale di Lahore, solo 162 sono comparsi sui mass media tra il 2013 e il 2020.