L’ultimo affondo, ieri pomeriggio, è di Mitt Romney. In un incontro con un gruppo di manager “latinos”, il candidato repubblicano ha annunciato permessi di soggiorno ai migranti che abbiano conseguito un titolo di studio superiore negli Stati Uniti o svolgano il servizio militare. Poco prima, il 15 agosto scorso, è entrato in vigore lo stop ai rimpatri degli studenti irregolari varato dal rivale democratico – e attuale presidente – Barack Obama. Che, però, negli ultimi quattro anni di governo, non è riuscito – lui afferma per l’opposizione del Congresso – a far approvare la promessa riforma migratoria. È una guerra a colpi di annunci a effetto quella dei due aspiranti alla Casa Bianca per blandire l’opinione pubblica ispanica, la principale comunità immigrata nel Paese. In pratica, uno statunitense su sei è di origine latinoamericana, per un totale di 50 milioni di persone. E altrettanti voti. Un pacchetto importante per vincere la competizione del 6 novembre. In quella data non si decide, però, solo il nuovo presidente americano. Anche sul piano locale, si rinnova buona parte delle cariche. E pure qui la questione-latinos preoccupa ma non sempre in armonia con gli umori nazionali. Anzi, negli Stati lungo la Linea – i 3mila chilometri di confine col Messico –, tanti fanno a gara nello sbandierare il pugno di ferro contro i migranti. Di sicuro, il primato spetta a Joe Arpaio, da vent’anni sceriffo di Maricopa, che i media definiscono «il più duro d’Arizona e degli Stati Uniti». «Bugie – risponde lo sceriffo ad
Avvenire –: sono il più duro del mondo». Non è un timido, l’80enne Joe Arpaio. Tutt’altro: ama “fare notizia”, nel bene o nel mare. La sua storia – racconta – è comparsa nelle pagine dei giornali Usa almeno 4mila volte. L’ufficio di Maricopa – che ingloba gran parte della periferia di Phoenix – dispone di un pool di addetti stampa che tiene l’agenda delle interviste. Ci si deve prenotare con ampio anticipo per conversare con l’uomo diventato famoso in tutto il mondo per la caccia senza quartiere agli irregolari. Costretti, una volta fermati, a dormire in tende nel deserto. Misure discusse, che gli sono valse una serie di denunce per violazione dei diritti umani e discriminazione. Oltre a un’indagine del dipartimento federale di Giustizia, terminata qualche settimana fa con l’assoluzione dello sceriffo per mancanza di prove. «Non ho molto tempo ma con lei parlo perché siamo connazionali – dice, mischiando italiano e inglese –. I miei genitori erano di Avellino. Sono arrivati a Springfield nel Massachussetts nel 1916». La domanda è scontata: «Ah beh, allora anche lei è un migrante». «No, sono nato qui. I miei sì erano migranti, ma regolari: sono entrati qui senza infrangere la normativa». La legge è l’ossessione dello sceriffo. «Il mio dovere è farla rispettare, anche a costo di essere impopolare o di sembrare rigido», ripete più volte. Ma precisa: «Non ho niente contro gli ispanici. Ho una nipotina “latina” e ho viaggiato spesso in America del Sud. Ma se alcuni ispanici infrangono la legge entrando senza documenti nel Paese devo perseguirli». Certo, lui lo fa con estrema durezza. Otto mesi dopo la sua prima elezione, nel 1993, ha fatto costruire una tendopoli in mezzo al deserto in cui tiene gli irregolari arrestati e in attesa di rimpatrio. “Tent City” – come è conosciuta negli States – può contenere fino a 1.600 detenuti maschi. Tutti sono costretti a indossare l’uniforme a strisce e biancheria intima rosa. «Macché umiliazione. Lo facciamo per evitare i furti. Ai migranti non piace la biancheria rosa, così non la rubano quando se ne vanno. Prima spariva di continuo. Ora no. È denaro risparmiato per i contribuenti», spiega. Per la stessa ragione ha realizzato “Tent City”. «Grazie alle tende si spendono 50 milioni di dollari all’anno in meno. Se i nostri soldati in Iraq e Afghanistan possono dormire per mesi o anni in un sacco a pelo, perché non possono farlo dei prigionieri?». Col denaro risparmiato, Arpaio sta costruendo un nuovo carcere. Per rinchiudere – probabilmente – altri irregolari. «Devo farlo, infrangono la legge». Inutile cercare di fargli cambiare idea. Ci ha provato, senza successo, due settimane fa il leader della Carovana per la pace messicana, il poeta cattolico Javier Sicilia. «Abbiamo avuto un colloquio franco, ma ognuno è rimasto sulle sue posizioni», racconta lo sceriffo. «Scusi ma ora devo andare. Però venga a trovarmi – dice prima di concludere la telefonata –, magari sarò ancora qui se a novembre mi rieleggono. In ogni caso la porto a mangiare in un ristorante messicano, così vede che non ho pregiudizi».