Dolcezza, infanzia, energia: cioccolato. Profitto, sfruttamento, sottosviluppo: cacao. Una semplificazione brutale? O piuttosto due facce della stessa medaglia, due aspetti di un mondo poco conosciuto con il quale abbiamo a che fare, senza saperlo, ogni giorno? Il commercio e la trasformazione del cacao è all’origine dei dolciumi che acquistiamo nei supermercati e nei bar, ma dietro la patina magica ed evocativa delle etichette dei prodotti di cioccolato si nascondono spesso storie di povertà e perfino di schiavitù. L’ultima vicenda che riguarda la guerra combattuta tra Paesi produttori e multinazionali per il controllo del mercato è avvenuta in Venezuela. In ottobre, il presidente Hugo Chávez ha promesso di nazionalizzare il cacao venezuelano (il 'Venezuelan black' è considerato il miglior cioccolato al mondo): «Non possiamo continuare a esportarlo – ha tuonato – dobbiamo industrializzarlo ». I veri profitti, infatti, arrivano dalla trasformazione della materia prima in cioccolato, più che dalla vendita dei raccolti. Attualmente, il settore è caratterizzato da forte concentrazione: sette Paesi rappresentano l’85% della produzione mondiale, cinque imprese controllano l’80% del commercio, cinque società detengono il 70% della lavorazione e sei multinazionali controllano l’80% del mercato del cioccolato. Tra queste ultime, tre sono americane, Hershey, Mars, Philip Morris (proprietaria della KraftJacobs-Suchard-Côte d’Or) e tre sono europee: Nestlè (Svizzera), Cadbury-Schweppes (Uk) e Ferrero (Italia). I fabbricanti di cioccolato – gli 'Willy Wonka' (il protagonista del noto film) delle nazioni più ricche – sono l’anello solido di una catena che ha il punto più debole negli agricoltori dei Paesi poveri. I grandi produttori spendono somme di denaro talmente elevate nella pubblicità e nella fidelizzazione del cliente che di fatto dominano le catene di distribuzione: quale supermercato può permettersi di fare a meno dei prodotti più famosi? Le speculazioni sul prezzo, che era crollato negli anni 90 scatenando danni sociali e sottosviluppo nei principali Stati produttori – tutti nel Terzo Mondo – hanno lasciato spazio ai ricchi margini attuali, dato che nel 2008 il cacao è stato uno dei pochi beni a incrementare le proprie quotazioni sulle Borse mondiali. Dagli anni 70 il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e l’Organizzazione mondiale del commercio hanno spinto i Paesi produttori di cacao a privatizzare le imprese pubbliche che gestivano il commercio e che spesso garantivano gli interessi degli agricoltori e delle economie nazionali. Le liberalizzazioni hanno aggravato la situazione dei coltivatori, aumentando lo sfruttamento minorile e la marginalizzazione dei sindacati. Portando così le multinazionali a comprare ciò che prima era statale e tutelato da interessi pubblici. Oggi l’opera di molte ong e le iniziative Oceano Pacifico 70 a tutela dei Paesi d’origine (come gli Accordi sul cacao sostenibile) promuovono, con l’ausilio dei mass media, progetti tesi a limitare la forza di influenza delle grandi imprese (e in qualche caso le aziende hanno reso etiche e trasparenti le proprie operazioni). Mentre le innovazioni tecnologiche sono in grado d’incentivare la nascita di industrie di trasformazione negli Stati produttori. Infine, sta crescendo un nuova consapevolezza nelle nazioni industrializzate: attraverso strumenti di pressione democratica e la richiesta di soluzioni legislative, gruppi di cittadini del mondo 'sviluppato' cercano di disincentivare lo sfruttamento dei coltivatori spesso condotto da alcune multinazionali del cioccolato, fenomeno che pesa sulle economie più deboli. Le prime popolazioni a coltivare la pianta furono i maya, seguiti dai toltechi e dagli aztechi. Nel 1528 Ferdinando Cortéz trasportò in Spagna i primi sacchi di cacao. Il cioccolato, cacao lavorato con l’aggiunta di zucchero o latte, cominciò a diffondersi in Europa nel Seicento (Reuters)