«Una vittoria». L’ha detto quasi senza accorgersi Vanessa Svebakk, mamma della 14enne Sharidyn, una delle 69 persone – in maggioranza ragazzi – massacrata a Utoya da Anders Behering Breivik il 22 luglio 2011. Per Vanessa e per gli altri familiari delle vittime – 77 in tutto in due successive stragi – la dichiarazione che il killer sia sano di mente e la conseguente condanna è la fine di un incubo. Paradossalmente, però, il verdetto di colpevolezza è anche la “vittoria” di Breivik. Che ha ascoltato la lettura della sentenza con le labbra deformate in un sorriso sinistro, quasi un ghigno beffardo. Era visibilmente soddisfatto il pluriomicida, che ha definito la decisione «illegittima» non si è affrettato a precisare che non intende presentare appello. Alla fine, ha ottenuto quello che voleva: la Corte distrettuale di Oslo ha escluso la sua follia. Dunque, implicitamente – osservano in molti – è stata riconosciuta la “valenza politica” del suo gesto. Breivik – in base alla decisione dei magistrati –, nel pieno possesso delle facoltà mentali, si è accanito sui giovani laburisti, riuniti durante un campo scuola, per odio ideologico, in quanto questi erano ritenuti gli artefici di una politica migratoria «permissiva». Tanto che, Breivik ha voluto platealmente chiedere «perdono ieri ai militanti nazionalisti per non aver ucciso di più».Parole assurde, frutto di una mente farneticante ma non folle. Almeno formalmente, come avrebbe voluto la Procura. È stata quest’ultima – che ha annunciato un periodo di riflessione prima di decidere un eventuale ricorso – la grande sconfitta di ieri. I pubblici ministeri si erano battuti perché fosse riconosciuta la «schizofrenia paranoide» di Breivik, come stabilito da una delle due perizie mediche effettuate. In questo caso, il killer sarebbe stato rinchiuso a vita in un ospedale psichiatrico. I giudici, però, hanno scartato all’unanimità l’ipotesi e si sono basati sull’altro giudizio medico. Quello che dichiarava il 33enne «responsabile delle azioni commesse». Breivik è stato dunque condannato – in base alla formula pronunciata dal magistrato Wenche Elizabeth Arntzen – «a una detenzione preventiva di almeno 10 anni e fino a un massimo di 21». Si tratta di un potenziale ergastolo, pena quest’ultima non prevista dal Codice penale norvegese. La formula della “detenzione preventiva” consente alle autorità di prolungare all’infinito la carcerazione, almeno fin quando il detenuto sia considerato un pericolo per la società. Questo, però, può presentare ricorso ogni cinque anni. È il medesimo escamotage utilizzato nel caso Arnfinn Nesset, “l’Angelo della morte norvegese”, infermiere e assassino seriale, condannato nel 1983 per aver ucciso 22 pazienti. E ora fuori dal carcere.Sulla decisione del tribunale di Oslo ha forse pesato la pressione dei parenti, ansiosi di chiudere al più presto questo tragico capitolo. Se fosse stato riconosciuto infermo di mente, Breivik sarebbe ricorso in appello. E si sarebbe dovuto svolgere un nuovo, stremante processo. Già questo è stato emotivamente difficile per familiari e sopravvissuti, oltre che per l’opinione pubblica nazionale. I norvegesi hanno visto con sgomento infrangersi il mito di abitare in uno dei Paesi più sicuri del mondo, poco abituato a delitti tanto feroci. Ad alimentare le tensioni, ha contribuito lo stesso atteggiamento provocatorio di Breivik. Anche ieri, il giovane, vestito in un impeccabile abito nero, appena i poliziotti gli hanno tolto le manette, ha appoggiato il pugno destro sul cuore e, poi, ha alzato il braccio teso. Con lo stesso saluto a braccio teso aveva inaugurato il procedimento, dieci settimane fa. Anzi, in quell’occasione aveva anche letto una sorta di memorandum, in cui motivava le ragioni della duplice strage. E, soprattutto, negava l’accusa di essere un «assassino di bambini», dato che la maggior parte dei ragazzi massacrati a Utoya aveva tra i 14 e i 16 anni. Per Breivik, le piccole vittime non erano adolescenti, ma «marxisti in erba», pronti a lasciar invadere la Norvegia da ondate di immigrati.L’atteggiamento del killer si è lievemente ridimensionato nelle udienze successive, quando l’accusa ha messo in risalto la sua esistenza grigia, fatta giornate intere spese di fronte al pc, a fare giochi virtuali o a navigare su siti razzisti. «Cerca di rendermi ridicolo», aveva sbottato, l’imputato contro il pubblico ministero. Il Breivik che si è presentato ieri in aula era, però, quello glaciale e beffardo dei primi giorni. La Norvegia ha deciso che non è pazzo. Il prezzo da pagare ora non sembra turbarlo. Anzi, ha già detto che approfitterà dei lunghi anni di prigionia nel penitenziario di Ila, vicino a Oslo, per scrivere la sua autobiografia, come annunciato dai legali.